Anch’io a scola!

Alle sette e due minuti del martedì mattina del sette maggio giungiamo sul piazzale del grande campo sosta di Castel Romano, all’estrema periferia sud di Roma. Il termine ‘sosta’ è un eufemismo, che emana puzza di ipocrisia burocratica, infatti sta a dire che è istituzionalizzato, in parte per via legale, in parte per via amministrativa, in pratica una questione problematica, più volte rimossa dalle varie gestioni politiche. Non riuscendo a trovare soluzione a una realtà così complessa, si è finito per accorpare un insediamento, e con l’idea di depotenziare il potenziale deleterio, lo si è lasciato come un dinosauro arenato, fossilizzato al km 24 di una via ad alto scorrimento. La zona nei paraggi, è deserta. Gli unici rumori provengono dai tir e dalle auto, che sfrecciano veloci sull’antistante strada provinciale, la Pontina, croce dei pendolari, obbligati a una routine quotidiana da incubo e delizia dei gitanti delle feste comandate, che si ingorgano allegramente, nei week end, verso le spiagge del litorale. Lasciando libero lo sguardo si nota che il campo sembra sterminato. Chi lo frequenta con maggiore assiduità spiega che è tanto grande da imporre all’amministrazione comunale la divisione in vari sotto-campi. Ovviamente si tratta di una convenzione fittizia: di fatto il sistema-campo è unico, sterminato e abbandonato, e le dinamiche di incuria e lassismo si ripercuotono su tutto l’enorme corpo, gigantesco e inerte.

Nell’aria si avverte l’odore pesante d’immondizia misto all’aroma petrolifero, proveniente da grandi vasche di metallo, poggiati a terra, nelle quali vengono accesi falò, per riscaldarsi e fare luce di notte. Siamo arrivati tutti: ci accompagnano un mediatore culturale, ovvero un Rom, che è riuscito ad abbandonare questo luogo, trovando una sistemazione più dignitosa e che ora cerca di aiutare gli amici a fare altrettanto, e un medico preposto a stilare i certificati di riammissione a scuola. A Roma, purtroppo, ci sono ancora bambini che non vanno a scuola, perché non riescono ad ottenere un certificato medico. Ci dividiamo in coppie. Il compito sembra banale, ma di fatto è impegnativo: si tratta di andare di baracca in baracca a bussare per svegliare gli scolari prima che arrivino i minibus del servizio scuola. Molti bambini, nell’abbandono generale, non si svegliano in tempo e non riescono a raggiungere i pulmini. Un attimo di ritardo significa pregiudicare il giorno di scuola, in quanto il luogo dove si trova l’edificio è troppo lontano dalla città per poterlo raggiungere con i mezzi o a piedi. Dopo più di cinque giorni d’assenza, senza un medico pronto a scrivere il certificato di riammissione, non si può riprendere la frequenza. Si dovrebbe comprendere il senso di sicurezza che deriva dalle norme dell’ordinamento scolastico. Ma sinceramente non è facile, perché appaiono illogiche e tese a emarginare. Se un bambino non è in buona salute è preferibile che resti a casa,  a curarsi. Se non riesce, però, a recuperare il fatidico foglietto del medico, il cancello mitico e un po’ sinistro della scuola rimane sbarrato. Forse alcuni bambini sono propensi a pensare che si tratti di una provvidenziale scusa per protrarre le vacanze tutto l’anno, ma senza scuola la vita diventa un dramma. Non solo perché non si ha la possibilità di apprendere e di relazionarsi con gli altri bambini, ma anche perché, in maniera incolpevole e inconsapevole, si rimane segnati a vita dal marchio della diversità. Se un bambino, nell’età giusta, resta estraneo ai ritmi e ai codici del vivere comune, rimane indietro, non riesce a stare al passo con gli altri. Una volta segnato dallo stigma del diverso verrà pensato come difficile, iperattivo, caratteriale. La realtà è molto più semplice: non ha avuto modo di andare a scuola, di imparare, di stare insieme agli altri. Si può accettare che ci siano ancora bambini che non vanno a scuola? Il problema interessa poco le persone e le istituzioni, pressate dagli assilli quotidiani, deresponsabilizzati o semplicemente scoraggiati dalle proporzioni del fenomeno. Le scuole fanno giornalmente l’appello dei presenti e ogni mese inviano le liste delle presenze al Ministero competente. Nessuno si premura di capire il motivo per cui centinaia di bambini non assolvono l’obbligo scolastico. Noi, martedì 7 maggio, ci aggiriamo per il campo alla ricerca delle baracche con i bambini da svegliare. Abbiamo come guida una lista, compilata unendo vari elenchi tratti dalle scuole e dal Ministero. Un computo dettagliato, che già dalla prima verifica risulta pieno di lacune. Bambini non iscritti, o peggio ancora, inseriti in scuole poste all’altro capo di Roma. Più mi inoltro nel campo e più lo scoramento mi assale. Il terreno è pieno di detriti e rifiuti. Vetri rotti, calcinacci, immondizia … ovunque regna l’abbandono. Passiamo di fronte a una baracca andata a fuoco, a causa della stufa a gas accesa nelle notti d’inverno per stemperare il freddo pungente della campagna romana, desolata e dominata dal permissivismo edilizio. Ora il nucleo familiare che vi trovava riparo si è trasferito da parenti prossimi, sovraffollando ancor di più un’altra baracca. I ratti sono così grandi da intimorire i cani e pasteggiano beatamente fra l’immondizia. E proprio questi animali, dagli occhi rossi scintillanti, che sembrano spiritati, gonfi sulle zampe posteriori con cui balzellano a zig zag, dimenando le code immonde, sono i custodi della landa. Non sembrano intimoriti dalla nostra vicinanza, al massimo infastiditi … Scene simili le ho sperimentate solo un’altra volta in vita mia. Era la primavera del 1999, ero giovane e con poca esperienza e mi trovavo sulle montagne inospitali dell’estremo nord d’Albania. Si trattava di un campo profughi a Kukës, al confine con il Kosovo. Era in corso una guerra civile e nel territorio dei Balcani la gente, senza speranza, si ammassava sui monti per non perire sotto le bombe. Il campo Rom, invece, si trovava alle porte di una città millenaria molto civile. Tornando a oggi, arriviamo alla prima baracca. La porta di ferro rotta e senza serratura è fermata dall’esterno con una bombola del gas. Bussiamo, ma non risponde nessuno. La ragazza che mi accompagna afferma che in quella baracca vivono completamente sole due sorelle di nove e undici anni. Chiedo, stupito, che fine hanno fatto i genitori. Alza le spalle e mi risponde che non si sa nulla di preciso. Potrebbero trovarsi in prigione o essersene andati. Di fatto due bambine non ancora adolescenti vivono completamente sole in una baracca in un immenso campo Rom. La cosa mi lascia basito, soprattutto perché il pensiero corre, inevitabilmente, a mia figlia di otto anni. Penso a lei, ancora così fragile e bisognosa di protezione e di affetto e rabbrividisco.

Bussiamo ancora, ma non risponde nessuno.

Ci spostiamo alla baracca accanto, dove sembra che viva un loro lontano parente, forse il nonno, per cercare di capire che fine abbiano fatto le due ragazzine. Bussiamo energicamente e, nel frattempo, iniziano a uscire autonomamente dalle baracche i primi bambini. Uno spettacolo rincuorante. Inoltre genitori, più o meno solerti, cominciano anche loro ad affacciarsi, per intraprendere le proprie faccende. Il campo sembra risvegliarsi da un profondo torpore.

All’improvviso da dietro la seconda baracca si palesa un bimbetto di tre o quattro anni al massimo con delle chiavi in mano; scalzo, saltella sull’asfalto ruvido e pieno di detriti come se stesse camminando sulla moquette. Ha capelli biondo oro, arruffati e non lavati da tempo. E’ sporco anche il visetto dalla carnagione chiara. Senza dire una parola si avvicina alla porta e, con le chiavi, la apre. Intanto da dentro qualcuno cerca di aprire con forza la porta, che è così malmessa che non combacia con gli stipiti e si incastra. Si tratta di un uomo sulla cinquantina, dal viso troppo vissuto e la barba lunga, sfatta, con occhi cisposi e sguardo allucinato, forse per il risveglio improvviso.

«Mi scusi:, Vanessa e Linda che fine hanno fatto?» Chiede la ragazza che mi accompagna e che conosce meglio di me il campo e i suoi abitanti. Scopro che l’uomo è il padre dell’angelo scalzo e il nonno delle due ragazzine che stavamo cercando.

«In baracca: perché tu mi sveliare?» Ha l’accento tipico del Rom balcanico e si cimenta nella lingua italiana di chi non è mai andato a scuola e ha appreso, per strada a formulare qualche frase.

«Siamo venuti a svegliarle per andare a scuola, ma non risponde nessuno.» Il tono della mia amica lascia trapelare una certa preoccupazione. Del resto sarebbe impossibile mantenersi tranquilli di fronte a due bambine di nove e undici anni che dormono da sole in una baracca e che hanno come unico sistema di sicurezza una bombola vuota di gas per bloccare la porta.

«Stanno drento! Stare male. Ieri mangiato qualche cosa sbaliato e ora mal di pancia e di testa.»

«Ne è sicuro?» Chiede incalzante la mia amica, sempre più preoccupata.

«Bussa forte ancora, prova!»

Il nonno accarezza i capelli biondi di suo figlio con le mani enormi, callose e sudice. Potrebbe sembrare un uomo truce, ma la diffidenza è giustificabile: non ci siamo mai visti e avrebbe più ragioni lui, in qualità di parente, di dubitare delle nostre intenzioni.

La rudezza della vita avrà scavato segni nel corpo (ha forse poco meno di cinquant’anni, ma sembra decrepito) e nell’ethos, ma sarebbe corretto valutare altri aspetti della sua vita. Pensare alla sua infanzia, presumibilmente vagabonda, seppure trascorsa nel contesto abbastanza garantito della Jugoslavia titoista, la poca confidenza con le istituzioni, specialmente con le scuole. Avrà avuto, forse, un’adolescenza turbolenta, ma libera e felice. Si sarà trovato, poi, a vivere la fine del progetto socialista e l’ inizio delle guerre etniche tra Serbi, Croati e Bosgnacchi (i musulmani di Bosnia). I Rom sono dovuti fuggire da una delle loro patrie secolari, colpiti dai fuochi incrociati dell’odio nazionalista, che li rigettava come spuri, opportunisti, infidi, perché non inquadrabili nella visione manichea del noi e del “loro”. Costretti ad allontanarsi dalla Bosnia rurale, dalle tradizioni artigiane, messe in crisi dall’arrivo massiccio della droga sono arrivati in Italia, Francia e Germania (pochi nel nord Europa dove il welfare ha favorito una integrazione più dignitosa), e si sono trovati emarginati nelle lande, brulle delle periferie delle metropoli, indifferenti al loro destino, se non apertamente ostili. Come sognare, o anche solo sperare in un futuro diverso, migliore, quando si è conosciuta solo la parte più dura della vita?

Torniamo alla baracca di Vanessa e Linda martellando la porta. Dopo vari tentativi finalmente si vede muoversi qualcuno che osa affacciarsi dalla finestra sconnessa. Aprono due ragazzine e sembra che stiano bene: forse un po’ stordite dal mal di pancia, ma  non emaciate.

«Noi oggi non andiamo a scola! Stiamo male.»

Dall’aspetto sembra vero e si decide di non insistere. Lasciamo una pomata contro le lendini, uova di pidocchi, tanto temute, con ragione, dalle maestre di ogni istituto di ordine e grado, piaga scolastica e sociale subdola e difficile da arginare.

«Va bene, ma usate almeno la pomata…»

«Certamente!» Trillano contente, rigirando tra le manine il flacone lucido di metallo. Mentre stiamo per procedere, un altro bambino sgattaiola fuori da una stanza della baracca. A giudicare dall’aspetto non avrà più di sei o sette anni. E’ vestito e pronto a mettersi le scarpe. Il suo entusiasmo mi commuove. Ha la voglia di andare a scuola dipinta sul volto e si è preparato da solo, indossando i suoi abiti migliori. Per un bambino Rom gli abiti migliori sono semplicemente i meno sporchi, e il bimbo in questione, infatti, ha un pantaloncino sdrucito e una maglietta stinta di rosso. Il nonno, che nel frattempo ci ha raggiunto, per sapere come stanno le nipoti, dice al piccolo che vestito in quel modo non può andare in giro. In effetti ha ragione, ma il bimbo sembra determinato e, ignorando l’avvertimento, si dirige verso i pulmini del comune di Roma. Il vecchio impreca qualche cosa nella sua lingua e poi torna nella baracca. Ormai sono le sette e trenta: continuiamo il giro alla ricerca di altri bambini da portare a scuola. Fra una baracca e l’altra incontriamo una ragazzina sui dodici anni, che gironzola senza una meta apparente.

«Tu non vai a scuola?» Le chiede la mia amica.

«No, io non iscritta a scola

Altro paradosso della nostra bella città. In uno dei paesi più evoluti e industrializzati del mondo, patria di tanta sapienza ed erudizione, non solo ci sono bambini che non vanno a scuola, ma addirittura molti di loro non sono iscritti …

Torniamo alla piazza dove sostano i pulmini comunali. I bambini sono tanti, molti in fila dal dottore, con i genitori, per ritirare il fatidico certificato medico per la riammissione a scuola. Nonostante ci troviamo in un campo Rom e i bambini con i propri parenti siano tanti, il caos è contenuto, quasi ordinato. Si sale sui pulmini, che aspettano con il motore accesso. I bambini sono tutti seduti, quando vediamo correre un bambino sui sei anni con uno zaino di proporzioni smisurate sulle spalle.

«Anch’io a scola! Anch’io a scola!» Urla, mentre corre, con la paura di non fare in tempo, come se prendere quel pulmino sia la cosa più importante della sua vita. Con un piccolo aiuto da parte nostra arriva in tempo e salta su come il migliore degli atleti, con il bellissimo sorriso sdentato stampato sul volto, felice di poter andare a scuola. Finalmente si parte!

Uno a uno, alle otto meno due, i sei pulmini dell’amministrazione comunale imboccano ordinatamente la via Pontina, eternamente intasata d traffico e si dirigono verso la metropoli tentacolare …