Mai più senza di loro

“Marta hanno suonato alla porta”.

“Si ho sentito, vai tu Flavio, mi sto truccando”.

“Sto lottando con il nodo della cravatta! E poi chi rompe a quest’ora?”

“È la babysitter. Chi vuoi che sia! Non fare il bambino e vai ad aprire!”

Lui e Marta dovevano uscire per una cenetta romantica, come non succedeva da tempo, e, come di consueto, avevano chiamato la babysitter. Si sarebbe fatto fare il nodo della cravatta da Jhoanna, nonostante fosse albanese, era molta brava ed era anche una laureanda in medicina, quindi la persona più adatta cui affidare i propri bambini.

“Si ho capito, ora arrivo, Jhoanna non è da te!” Disse aprendo la porta. Ma Flavio non si trovò davanti Jhoanna…

“Scusi, lei chi è?” Chiese, interdetto.

“Come chi sono? Un altro che non si ricorda del referendum! Io sono la nuova babysitter paparino. Italiana al cento per cento”. Disse la donna, con strafottenza, esibendo, con orgoglio, il certificato di cittadinanza certificato di italianità.

Il referendum che era stato fatto sei mesi prima faceva fatica a ricordarlo, anche se era uno di quelli che aveva votato a favore. Non perché fosse razzista, o ce l’avesse con gli stranieri, ma perché si era arrivati a un punto in cui era necessario dare una ripulita per uscire dalla crisi e eliminare definitivamente la criminalità. Secondo i promotori del referendum, che erano stati così convincenti che non si poteva dubitare, i problemi dell’Italia erano da attribuire esclusivamente all’invasione di immigrati.

Stanchi dei “veri” problemi, dell’Italia avevano raccolto firme a sufficienza per indire un referendum allo scopo di cacciare chi non fosse italiano al cento per cento. Il referendum aveva provocato non pochi problemi, perché dopo tanti anni, gli stranieri si erano integrati e molti di loro erano diventati cittadini italiani. Si era deciso di non accettare gli ibridi, e di risolvere il problema accettando solo chi fosse stato italiano nel 1948, ovvero quando fu firmata la Costituzione italiana. Costoro avrebbero potuto trasmettere l’italianità alle generazioni future. Fu a causa di questo provvedimento che l’Italia si trovò, da una settimana all’altra, spopolata di quasi la metà della popolazione, perché fra immigrati “normali”, immigrati italianizzati e immigrati che si erano sposati con italiani solo poco più del 50% dei residenti in Italia poté ottenere il prezioso documento di “italianità”.

La crisi non si era risolta con quell’esodo, ma ne valeva comunque la pena, perché l’Italia avrebbe avuto meno problemi. L’unico neo di questo referendum furono gli zingari. Infatti si scoprì, con orrore di tutti, che molti di loro erano italiani autentici fin dal 1948. Questa situazione creò molto imbarazzo fra i promotori del referendum, che avevano basato proprio sull’eliminazione toltale del “problema” zingari la loro campagna.

Si trovarono costretti a giustificare questo inconveniente con il proprio elettorato: “Troveremo una soluzione anche a questo residuo di problema” avevano sentenziato, “come in una dieta si perdono subito i chili in abbondanza e solo dopo si va a combattere il grasso localizzato, così con gli zingari troveremo una nuova strategia per combattere il male rimasto”.

Certo il paragone della dieta non era fra i più calzanti, ma Flavio aveva fiducia in loro…

“Ehi, svegliaaaaa! Andiamo bene, un altro rincitrullito!”

“Ma come si permette…” Ribatté Flavio, infastidito dalla maleducazione della ragazza.

“Mi permetto e come… io sono italiana; se vuole me ne vado, ma credo che troverà una sostituta con molta difficoltà!” Lo sbeffeggio ulteriormente.

Certo la ragazza maleducata non aveva tutti i torti. Da quando gli stranieri se ne erano andati, trovare una babysitter disponibile era diventato un miracolo.

“Va bene, va bene, signorina…”

“Carla”

“Va bene, signorina Carla, e quanto prende all’ora?”

“Quindici euro l’ora!”

“Cosa? Quindici euro l’ora? Ma Jhoanna ne prendeva otto, ed era una laureanda in medicina! Lei almeno le superiori le ha finite?” Chiese, sempre più stizzito.

“Scherza? Se ero diplomata facevo questo mestiere alla mia età? Non sono più una ragazza che si deve pagare le vacanze. Ho famiglia… Se non le va bene il prezzo ne trovi un’altra.”. Concluse, con il sorrisetto di chi sapeva di aver messo alle corde il suo avversario.

“Va bene, va bene, e sia! Ma almeno il nodo alla cravatta lo sa fare?”

“Scherza? Io sono italiana e certe cose non le faccio!” Disse, offesa.

Flavio si rassegnò ad uscire senza cravatta e a far entrare la ragazza italiana.

***

Le vie di Trastevere erano di certo più sgombre senza i numerosi venditori ambulanti, che intasavano i vicoli del quartiere, e questo dato di fatto era molto rilassante, almeno per Flavio, in quanto Marta mostrava un grande nervosismo. Doveva trovare assolutamente una borsetta nuova da abbinare al vestito che la sera seguente avrebbe indossato per andare alla festa con i colleghi. Dopo quasi un’ora di ricerche meticolose le borse non si trovavano, se non nei negozi, ed erano troppo care. Tutto italiano e, quindi, non sempre accessibile. Del resto la qualità si paga e anche Marta – o meglio Flavio -, doveva rassegnarsi all’evidenza. Se voleva la borsa nuova, – che con molta probabilità avrebbe usato solo una volta come tutte le altre miriadi di borse comprate solo per quella precisa occasione – Flavio la doveva pagarla a prezzo pieno.

Alla fine Flavio dovette cedere alle italiche pretese. Se quella sera voleva fare una bella serata romantica con tutti gli annessi e connessi avrebbe dovuto comprare quella borsata, a prezzo pieno, alla sua amata…

La serata non era ancora cominciata che, fra babysitter e borsetta, andarono via quasi 200 euro…

“Come sarebbe a dire che questa borsetta così piccola costa 140 euro? Fino a tre mesi fa costava la metà! Ma mica siamo da Prada!”

“Signore che le devo dire questi sono i nuovi prezzi, del resto dopo il referendum la produzione industriale italiana è calata di oltre il quaranta per cento. Che vuole non è colpa mia se la maggioranza degli operai che lavorava nel settore tessile – come in tutti gli altri settori del resto – era straniera. Ora, con solo le risorse italiane, la produzione non riesce a far fronte alle richieste del mercato!”

“Mah… mah” provò a balbettare qualche cosa il povero Flavio… anche se non riusciva neanche a pensare a cosa…

“Senta signore c’è gente che chiede la mia presenza, che fa la compra o non la copra questa borsetta italiana al cento per cento?”

Flavio si girò per un istante verso Marta. Il messaggio era chiaro… o comprava quella borsetta oppure quella sera avrebbe fatto tutto da sé…

“Ok, ok la compro… ma almeno un piccolo sconto me lo può fare da italiano ad italiano?”

“Scusi per chi mi ha preso per uno straniero che contratta sul prezzo? io sono un italiano al cento per cento queste cose non le faccio…”

Fu così che il povero Flavio umiliato e spennato dovette cedere al prezzo italico e comprare la borsetta per la sua amata, che almeno divenne molto più dolce e coccolosa.

Finalmente arrivarono al ristornate “Da Seneca a Trastevere”, il miglior pizzaiolo del quartiere. Da lui si mangiava la vera pizza napoletana, per non parlare dei fritti, davvero eccellenti. Per fortuna il ristorante era quasi vuoto, così avrebbero mangiato velocemente, bevuto quel tanto che bastava, per rendere un po’ più piccante la serata e poi sarebbero corsi a casa per una notte indimenticabile…

Purtroppo per Flavio passò più di un’ora prima che le pizze fossero pronte. E quando finalmente furono serviti, le pizze non erano certo invitanti. Simili a ostie bruciacchiate, con del pomodoro crudo e della mozzarella poco filante, lontane anni –luce dalle ottime pizze napoletane.

“Scusa Antonio, mi vuoi spiegare cosa sarebbe questo??? Uno scherzo di pessimo gusto direi!” protestò visibilmente alterato Flavio.

“Mi dispiace Flavio, non ci posso fare nulla, da dopo il referendum è così. Prima avevo tre pizzaioli egiziani che erano bravissimi, ora a stento ne riesco a pagare uno italiano!”

“Perché il pizzaiolo italiano non è più bravo di quelli egiziani? Ma, soprattutto, perché te ne puoi permettere solo uno?”

“Di pizzaioli italiani non se ne trovano più da anni, il lavoro e troppo duro e non retribuito come volevano, per questo alla fine erano quasi tutti stranieri. Egiziani per essere precisi. Loro sì che erano bravi ed economici. Dopo il referendum mi sono dovuto arrangiare e ho dovuto cercare un pizzaiolo italiano. L’unico che ho trovato è un ex ragioniere di La Spezia, che aveva perso il lavoro a causa della crisi. Dopo due settimane che lavorava mi ha detto che se non gli davo il triplo della paga e più 32 giorni di ferie pagate, malattie pagate, l’assicurazione sanitaria integrativa e ben quattordici mensilità, mi avrebbe fatto causa all’INPS e all’ASL per una serie di motivi che ora non ti sto a dire… Mi dispiace, le cose stanno così, e ti assicuro che non solo l’unico a sperimentare questi chiari di luna”.

Flavio era allibito, di certo la mancanza di stranieri per l’economia si stava rivelando fallimentare, ma era lo scotto che si doveva pagare se si voleva un Italia più sicura, con più lavoro per gli italiani, che potesse finalmente uscire dalla crisi.

“Va bene Antonio non ti preoccupare, era comunque tutto ottimo, perché italiano. Ora se non ti dispiace mi porti il conto, così torniamo a casa? Abbiamo la babysitter che ci aspetta”.

“Certo Flavio e solo perché sei un vecchio cliente italiano ti faccio anche un po’ di sconto. Dunque, vediamo cosa hai preso: mezzo litro di vino bianco della casa, un antipasto fritto per due, due pizze e due amari, più il servizio… sono 76 euro, con lo sconto “amico italiano” sono 70 euro tondi tonti!”

“Cosa? 70 euro per due pizze schifose? Antonio, ti è andato di volta il cervello?”

“Stai calmo e non urlare, noi italiani siamo brava gente e non ci lasciamo andare a questi modi rozzi. Ti ho spiegato che per far fronte ai nuovi costi ho dovuto alzare i prezzi e ti è stata servita una pizza italiana, fatta da un italiano, per cui non poteva fare schifo…”

Flavio pagò a malincuore, andando via con l’amaro in bocca di chi è stato appena fregato da un fratello. Per fortuna rimaneva l’idea della seratina piccante con Marta a tirarlo su. Aveva fatto tutti i passi per meritarsi le ore di passione… Anche Marta era ansiosa di arrivare a casa e per tutto il tragitto non fece altro che ammiccare e provocare Flavio con bacetti sull’orecchio e promesse scabrose. L’uomo non vedeva l’ora di mandare a quel paese la babysitter italiana e di lanciarsi con la sua amata in acrobazie amorose, quando il cellulare iniziò a squillare.

Preso il telefono Flavio sbiancò nel vedere che si trattava del numero d’emergenza del salva vita “Minelli”. Un aggeggio infernale fatto da un certo Minelli, che Flavio aveva dovuto acquistare, dopo il referendum, per sua madre malata, rimasta senza la sua amata badante moldava.

“Ora che faccio?”

“Devi andare da lei, del resto se è rimasta sola è anche per colpa tua, che hai votato per quel dannato referendum e non gli hai trovato un’altra badante italiana”

“Marta, anche tu hai firmato per il referendum, e lo sai bene che di badanti italiane non se ne trovano, perché è un lavoro troppo duro. L’unica che ero riuscito a trovare era una specie di barbona, che voleva 2500 euro al mese più vitto e alloggio… neanche io li prendo tanti soldi al mese, come facevo a pagarla?”

“Il problema è tuo caro, non ti lamentare se tua madre ti chiama dalle venti alle trenta volte al giorno…”

“Va bene, hai ragione tu, come sempre del resto. Allora facciamo così: ti lascio a casa così mandi via la babysitter, e io corro da mia madre, per vedere cosa vuole. Se mi dice culo e sono fortunato fra quaranta minuti, al massimo, sono di nuovo da te, amore mio”.

“Tranquillo, amore mio… rimani pure da tua madre a dormire questa sera”.

In un istante tutte le speranze di una notte di passione coltivate da Flavio, si sgretolarono come uno specchio rotto. Non era servito a nulla pagare quasi profumatamente la babysitter, la borsetta italiana e quelle pizze schifose…

Flavio lasciò sotto casa Marta, che non lo degnò di uno sguardo. Furioso, si diresse a tutta velocità, dalla madre. Purtroppo la Luna Italiana quella sera non era dalla sua parte e lo fermò, anche una pattuglia della municipale.

“Favorisca patente e libretto per favore”, sentenziò un vigile, dall’aspetto tutt’altro che rassicurante.

“Ecco, sì, subito… sa, stavo correndo da mia madre che è sola… se può chiudere un occhio”, provò a dire, timidamente.

Il vigile lo guardò torvo, per qualche secondo, per poi accennare a un sorriso beffardo.

“Certo, certo chiudere un occhio… questa frase la devo leggere come una minaccia o come un tentativo di corruzione?”

“Solo come un favore, da italiano a italiano, che le dice che ha la mamma malata, che l’ha chiamato”

“Certo, da italiano a italiano. Allora, se è tentata corruzione sono 200 euro, se è una minaccia, credo che dovrà trascorrere una notte in cella, oltre a pagare la multa per eccesso di velocità, e perdere dieci punti dalla patente per l’infrazione, con l’aggravante della resistenza a pubblico ufficiale!”

Flavio rimase allibito, non riusciva a credere alle sue orecchie, né tanto meno riusciva a dire una sola parola.

Di fronte a tanto mutismo il vigile urbano decise di rincalzare la dose.

“Allora, visto che non si decide, paga 250 euro, oppure viene con noi”.

“Va bene…”, fu quanto riuscì a dire Flavio, mentre prendeva il portafoglio per pagare.

“Perfetto grazie, sa questo è un periodo di crisi… con quel maledetto referendum non abbiamo più stranieri a cui chiedere il pizzo e quindi in qualche modo dobbiamo sbarcare il lunario… sa io ho famiglia” disse ammiccando in maniera amichevole.

“C…e…r…t…o…!” furono le uniche lettere che Flavio riuscì a mettere in una sequenza logica.

“Ah e poi, scusi, le devo fare, comunque, la multa, per giustificare la fermata nel verbale da presentare al comando. Lei, capisce, vero?”

Flavio riuscì solo a fare un cenno di assenso con la testa. Pagato il “pedaggio” e presa la multa per un’ipotetica inversione a U, mai effettuata, ripartì, non riuscendo più a superare i 50 chilometri orari. Impiegò quasi un’ora per arrivare a casa della madre, che, nel frattempo, lo aveva chiamato almeno dieci volte.

La trovò per terra, che non riusciva a rialzarsi.

“Mamma, che cosa è successo?” Chiese, preoccupato. Mentre cercava di rialzare la povera donna.

“Mah nulla di che… Sono solo scivolata, come mi succede spesso. Prima avevo Olga…, che mi aiutava. Che brava donna che era… non sai quanto mi manca” Disse mentre cercava, a fatica, di rialzarsi.

“A chi lo dici mamma… se c’era Olga a quest’ora mi sarei risparmiato 250 euro, una multa, un umiliazione e l’incazzatura di Marta”

“Che centra Marta ora? Non mi trattare male la mia povera nuora… che errore madornale ha fatto a sposare te! Io gliel’ho sempre detto… ma lei è una santa donna e ti ama ancora nonostante che sei un testone!”

“Grazie mamma… vedi? Se ci fosse stata Olga mi sarei risparmiato anche questa ramanzina… per non parlare del fatto che ora starei con lei e non con te” disse ironico, abituato al caratterino della mamma, mentre l’accompagnava in cucina.

“Ecco si Olga… quanto mi manca”

“Senti, mamma, non è che questa sera posso dormire da te? E’ tardi per tornare a casa, potrei svegliare i bambini”, disse, cercando di apparire il più naturale possibile.

La madre lo squadrò per qualche secondo, come un segugio scruta la sua preda, poi sbottò: “si certo svegliare i bambini… Dì la verità, hai fatto di nuovo arrabbiare quella povera martire di Marta, che ti ha buttato fuori di casa. ”

“Più o meno le cose stanno così… Posso dormire da te?”

“Ma certo, amore mio. Sai che sono felice se torni a dormire nella tua stanzetta”, gli rispose, pizzicandogli le guance, come quando era bambino.

Un rumore sinistro attirò la loro attenzione.

“Non hai mangiato?” chiese, l’anziana, preoccupata.

“Diciamo che ho mangiato una schifezza, in un ristorante al cento per cento italiano”.

“Vedi che sei al cento per cento un testone? Quante volte te lo devo dire che il vero cento per cento italiano lo trovi solo qui, dalla tua mammina?”

“Hai ragione mamma, non è che potresti preparami…” Non riuscì a finire la frase, che la mamma era già ai fornelli.

“Che ne dici di due spaghetti aglio, olio e peperoncino?”

“E, se invece, mi facessi due pennette all’arrabbiata?”

“Ma scherzi? Allora lo vedi che ho ragione e dire che sei cento per cento un testone? Da quando non ci sono più gli immigrati nessuno raccoglie i pomodori e una bottiglia di passata di pomodoro arriva a costare anche dieci euro… Con la mia pensione al cento per cento italiana chi se la può più permettere? Ti dovrai accontentare di due spaghetti aglio, olio e peperoncino”, disse l’anziana, ammiccando amorevolmente.

“Mamma sei insuperabile…”

“Ti posso chiedere un favore, però?”

“Certo, tutto quello che vuoi”

“Mi fai tornare Olga? Mi manca troppo e solo con lei potrò rimanere a casa mia… Se vado avanti in queste condizioni, l’unica soluzione per me sarà l’istituto”.

Flavio guardò con profonda tristezza la madre. Per la prima volta aveva capito cosa rappresentasse per lei Olga. Non era solo un aiuto ma un’amica, con cui passare le giornate e, soprattutto un sostegno costante, che le avrebbe permesso di rimanere a casa sua fino alla morte.

“Mamma, farò di tutto per riportarti Olga, te lo prometto. Per quanto mi riguarda il referendum può essere abrogato subito: mai più senza di loro!”

Pane, amore e fantasia

Tutti amiamo realizzare i nostri propositi, specie quando coincidono con grandi ideali. I sogni però, non sono facili da realizzare e, quando coniugano lavoro e disabilità, la cosa sembra al limite dell’utopia…

Tale utopia prese forma nei primi anni Novanta, quando il senso comune sui disabili iniziava a evolvere e ci si interrogava sul valore potenziale di una persona che avesse limiti fisici. Il cambiamento non avvenne dalla sera alla mattina per impulso di un visionario, ma dovette trovare un terreno fertile nel quale svilupparsi.

I disabili venivano definiti handicappati, al massimo portatori di handicap. Si sottolineava il peso del limite, e la condizione irreversibile di disagio. Ma, silenziosamente, molto stava cambiando. Come il vento nasce spesso da una brezza e diventa un tornado, così tale sogno iniziò dall’inquietudine, che si agitava nell’animo di qualche persona.

Nel 1991, già da tempo, Andrea si stava interrogando sul futuro di alcuni disabili suoi amici. Per una persona “normale” il futuro poteva sembrare più o meno lineare. Si finivano gli studi, si cercava un lavoro, ci si sposava e si metteva su famiglia. Una circolarità banale, che sembrava preclusa, a quasi tutti i disabili. Era impossibile spezzare questo taboo: i disabili potevano essere capaci, emancipati, ma dovevano arrendersi al massimo a un livello di assistenza accettabile. Che potessero avere aspirazioni comuni sembrava un lusso, che potessero arrivare a realizzarle, appariva la fuga in avanti di pochi avanguardisti.

Gli “handicappati” adulti erano “condannati” ad una vita di istituti o centri diurni e, per i pochi che finivano gli studi, le cose non erano di certo migliori. L’unica prospettiva sembrava una vita di tirocini ciclici e non retribuiti, senza la minima speranza di normalizzazione lavorativa.

Molti dibattiti si attivavano a favore delle persone disabili e delle loro famiglie; nascevano dalle esigenze quotidiane e concrete, di spazi garantiti dalle leggi e dal buon senso. Ma trovare gli aiuti necessari nelle pieghe della burocrazia, diveniva un ostacolo enorme per molti, che sfiduciati, si abbandonavano al vittimismo e alla rivendicazione arrabbiata. Senza contare chi viveva di proclami ideologici, a debita distanza dal coinvolgimento diretto, con chi i disagi li viveva e i diritti li attendeva come una liberazione.

Favorire l’integrazione nella società accanto agli altri non doveva limitarsi a pochi sporadici attimi di accettazione per i disabili e le famiglie, che iniziavano ad assaporare la vertigine dell’uguaglianza, del superamento del pregiudizio. Non si poteva più tollerare la condanna di giovani adulti bloccati in un limbo.

Sergio, un disabile con una vita semplice, ma con una grande chiarezza sul proprio futuro, era solito ripetere: Se avessi commesso un crimine, adesso ero libero di ricominciare perché avevo scontato la pena… invece a cinquant’anni anni mi trovo ancora a fare tirocini gratuiti alla Regione, nell’attesa e nella speranza di un lavoro che non arriverà mai”.

Questa era la condizione dei più fortunati, che un impiego, anche virtuale, l’avevano; la situazione dei meno intraprendenti poteva definirsi disperata. Di fronte a questo panorama sconfortante, Andrea e altri amici di buona volontà si impegnavano per trovare un lavoro dignitoso alle persone disabili. Le risposte istituzionali erano ancora deboli e farraginose. Micro-progetti, in alcuni casi virtuosi, in altri velleitari, di breve durata. Bisognava trovare una via alternativa, stabile e radicale, alle assunzioni pubbliche, in quote protette, tramite Ufficio di collocamento, imposte per legge. Serviva la classica idea geniale: dignitosa, praticabile e, soprattutto, sostenibile.

Finalmente l’idea arrivò. Un vero uovo di Colombo, semplice e universale, che era sotto gli occhi di tutti, bastava osservare i vicoli di Trastevere.

Aprire un ristorante.

La volontà di fare non mancava: bisognava capire se i disabili volessero prendere parte a un progetto un po’ avventato.

Un pomeriggio Andrea invitò Michele, un suo vecchio amico con disabilità, a una lezione su come preparare tramezzini, panini e l’indispensabile alla buona riuscita di una “Paninoteca”. Michele non capì subito a cosa servisse la spiegazione. Non si sarebbe definito un cultore della cucina elaborata, mangiava solo otto pietanze: pane, pizza bianca, pasta in bianco, parmigiano, fettina ai ferri e poco più… e solo quelle! Ma si divertì molto e chiese di continuare. Andrea colse al volo la richiesta. Alzò all’improvviso la posta in gioco e, come un abile giocatore di poker, azzardò: “Ti andrebbe di aprire un piccolo ristornate, con me e altri amici?”

La domanda non prevedeva un’immediata risposta entusiasta. L’aveva lanciata tanto per introdurre un discorso, in prospettiva. Del resto stava chiedendo un grande impegno ai suoi amici disabili: si doveva costituire una cooperativa di lavoro, occorreva ristrutturare due piccoli ambienti che la vicina parrocchia di S. Maria in Trastevere aveva gentilmente concesso in comodato d’uso. Bisognava muoversi con prudenza, cercando di far metabolizzare bene il progetto a tutti gli interessati. Rimase di sasso quando Michele rispose: “Certo, che problema c’è! Quando iniziamo?”

Il vento del cambiamento aveva cominciato a spirare…

***

Trascorsero circa tre anni da quel giorno, in cui furono sommersi da una montagna di adempimenti burocratici, di ristrutturazioni laboriose, di infinite ricerche di fondi e di corsi di formazione per il personale disabile. Nel 1994 si inaugurò il ristorante “Pane Amore e Fantasia” meglio noto come la Paninoteca. Era tutto pronto, mancava solo un sommelier. A chi affidare un compito così delicato? Il prescelto doveva conoscere a menadito le bevande alcoliche, in tutti i possibili aspetti: vinificazione, etichetta, provenienza, fragranza, abbinamenti, valore di mercato…

La situazione sembrava irrisolvibile, finché si prospettò la candidatura di Michele.

“Michele! Ma tu sei astemio!” Obbiettò Andrea, perplesso e divertito allo stesso tempo.

“E tu fammi un esame”, ribatté l’interessato, con un sorriso truffaldino, che era tutto un programma. Michele, nonostante fosse astemio, riuscì a descrivere esattamente fragranza, aroma, consistenza e soprattutto gli abbinamenti di ogni vino della cantina della Paninoteca.

Un esempio di come una persona disabile possa essere più che qualificata nel lavoro. Da quel giorno la Paninoteca vanta l’unico sommelier astemio a memoria d’uomo, specialità segnalata in più di una guida enogastronomica di rispetto.

Ma che cos’era esattamente questa Paninoteca? All’inizio un piccolo locale a via della Paglia, nel quartiere di Trastevere, dove lavoravano poche persone e solo quattro disabili. Un locale carino, con appena cinque – sei tavolini, dove si potevano servire panini ed insalate. Nulla di veramente cucinato, purtroppo, perché i permessi per la ristorazione erano difficili da ottenere. Il locale era piccolo, ma costituiva uno spettacolo che allargava il cuore: accogliente, arredato con gusto e fantasia, pieno di stampe dell’omonimo e famosissimo film di Vittorio De Sica. In effetti nessun nome poteva essere più appropriato, racchiudeva in sé tutte le virtù di una persona disabile. Il pane dell’amicizia, l’amore che da esso scaturisce e la fantasia con cui l’iniziativa si sosteneva. L’accesso era consentito solo ai soci tesserati dell’Associazione culturale che gestiva il localino, i clienti erano persone affezionate e conosciute, abituate ad essere viziate dalle attenzioni e dalle cure dei camerieri-gestori. Grazie alla marcia in più che i disabili dimostravano in fatto di accoglienza e comunicatività, oltre che al posto carino pieno di cose genuine, anno dopo anno la Paninoteca crebbe, nonostante i limiti imposti dalla burocrazia. I cinque – sei tavolini erano sempre pieni, e per poter gustare un “mega panino genuino e carico di amicizia e simpatia” bisognava fare la fila.

Una “leggenda” trasmessa oralmente dai camerieri della vecchia guardia narra che una sera, attirata dal nome e dalle storie che si narravano sul localino, Gina Lollobrigida in persona si sarebbe spinta fino a Trastevere, per gustare un panino ripieno di amore e fantasia! Quando si diffuse la voce che la “Lollo nazionale” era lì, si scatenò la ressa per l’autografo… Centinaia, forse migliaia di persone accalcate davanti alla porta pur di vederla… Ma non si trattò solo di leggenda: la grande attrice passò veramente per Trastevere, incuriosita da quel locale che portava il nome del film, che l’aveva consacrata come icona del cinema italiano, si fermò ed entrò, mangiò un’ottima insalata, fece i complimenti a tutti, anche per l’idea sociale che la ispirava il locale e li lasciò estasiati. Fra celebrità e avventori quotidiani, il locale continuò a crescere, fino a quando nel 1999, si tramutò da simpatico bruco in splendida farfalla: un vero e proprio ristorante nella vicina piazza di Sant’Egidio.

****

La Paninoteca non si chiama più “Pane Amore e Fantasia”. Non è neanche più una paninoteca, ma un ristorante vero e proprio dal nome: “Trattoria degli Amici”.

Sono trascorsi vari anni, molti clienti, fedeli o passeggeri, come i turisti che frequentavano Trastevere, hanno contribuito a trasformarlo in luogo affermato, segnalato in guide enogastronomiche di rispetto.

Oggi La Trattoria degli Amici è molto più di un ristorante dove lavorano tredici disabili. Si tratta di un locale bello, raffinato, con cinque sale al coperto e uno spazio esterno, senza barriere architettoniche, in stile trattoria romana d’altri tempi. Ospita una selezione delle opere prodotte dai Laboratori d’arte sperimentale di persone disabili della Comunità di Sant’Egidio, in cui gli artisti esprimono, con competenza e grande impegno, grandi temi attuali con sapienza semplice, ironica, e profonda, rara nel vastissimo e frastagliato panorama artistico contemporaneo.

Non solo, la Trattoria è diventata anche un centro per l’avvio al lavoro di persone disabili, dove ogni anno, si svolgono tirocini gratuiti.

Il “titolo” del corso di formazione, da solo, è paradigmatico: “Valgo anch’io”.

Questo slogan, fiero e rivoluzionario, viene oggi ripetuto da quarantasette disabili, uomini e donne, giovanissimi e maturi, con esperienze scolari specifiche, come i diplomati all’Istituto alberghiero, e ha un valore dirompente, soprattutto in un tempo di crisi generale, in cui trovare lavoro è difficile per tutti.

Alcuni, per la competenza acquisita e la simpatia innata, sono stati avviati da nomi prestigiosi della ristorazione romana nel campo operativo della gestione della sala o dell’aiuto in cucina.

È il caso di dirlo: il seme è germogliato e fiorito e si raccolgono i frutti!

La linea sottile

Gabriele era seduto su una panchina nel cortile della mensa di via Dandolo. Pomeriggio d’estate romano, assolato, non er ponentino, la dolce brezza serale. Fissava un bigliettino di color azzurro, -di quelli per le riffe patronali -, mentre aspettava il suo turno. Sul foglietto c’era scritto a penna il un numero cinque, accanto ad uno stampato, il trentasette.

Tra un po’ tocca a me”, infatti avevano iniziato a servire i numeri dal 500 in poi.

Gabriele da qualche tempo era divenuto uno come ‘quelli là’.

Il suo sguardo, in un automatismo involontario, si spostò dal bigliettino azzurro alle persone che sedevano accanto a lui. Definirle persone era già un riconoscimento. Cominciò a riflettere sul fatto che era circondato da quelli che la gente ‘normale’ considera scarti. Un tempo faceva finta di non vederli, come se il solo avvicinarli avesse potuto contagiarlo con il pericolosissimo germe della povertà.

Ora anche lui era ‘uno di loro’.

‘Poveracci’: italiani male in arnese, accattoni, zingari, straccioni, emigranti, rifugiati, barboni e nuovi poveri. Tutti fuori dagli schemi, quasi irreali… come un trans sudamericano di 160 kg che vive per strada e passa qui le sue ore migliori.

Gabriele si imbarazzò di fronte al pensiero, carico di pregiudizio, che fino a poco tempo prima era stato anche il suo. Aveva vissuto senza pietà: detestava ‘quelli là’, dal profondo del cuore, perché rappresentavano lo spauracchio, il monito del fallimento di una vita. Sembravano larve umane, segnate da tutte le negazioni delle qualità possibili. Sporchi, ignoranti, senza lavoro, indolenti, aggressivi, irrecuperabili. Pur senza averne mai conosciuto uno di persona, in passato aveva emesso la sua sentenza.

“Se lo sono cercato quel destino di merda!” E gli sembrava che non facessero nulla per tirarsene fuori. Non poteva tollerare che gente normale volesse e potesse vivere in quelle condizioni. Si scagliava verso chiunque alimentasse la loro non vita con elemosine o aiuti di altro tipo, che tacciava di sterile assistenzialismo.

“Ipocriti buonisti che contribuivano a degradare la città più bella del mondo per sentirsi a posto con la coscienza. Intanto i costi sociali li pagavano gli altri, quelli come lui, con le loro tasse!

Gabriele, nel dare i suoi spietati giudizi, dimenticava che, da libero professionista era uno dei tanti evasori fiscali.

Altro che bontà e carità cristiana: una perversione che alimenta chi vive da parassita.

Si accaniva, asserendo che la colpa del tracollo economico, finanziario, culturale, valoriale, era da imputare a quella gente là e ai buonisti ipocriti, che li foraggiavano.

Senza i ‘buonisti ipocriti’, ora che era diventato come quelli là, sarebbe morto di fame e di freddo nella macchina, che da un anno e più, era divenuta la sua nuova casa.

Un brivido freddo gli solcò la schiena dalla prima all’ultima vertebra, la più acciaccata.

Era stato un uomo ricco e di successo, affascinante e seducente, possedeva quello che tutti definiscono il carisma naturale del leader.

Gabriele aveva avuto tutto, eppure, ora, si trovava accanto a chi non aveva più nulla.

L’aveva sperimentato sulla sua pelle: bastava poco a oltrepassare la linea sottile fra il noi e il loro. Pochi stupidi errori, nessuno a darti una mano al momento giusto, e soprattutto, alcuni attimi decisivi dovuti a quella maledetta crisi…

Fino a qualche tempo prima era stato un esperto riconosciuto nel mondo della pubblicità, dal successo garantito. La carriera folgorante lo aveva portato fondare una grande azienda leader, nel settore che aveva curato famosi marchi. Se la passava bene, non solo dal punto di vista economico, ma anche sentimentale: una bella moglie e due figlie, che gli volevano bene.

A poco a poco il suo mondo, però, si sgretolò a causa del senso perverso di autoaffermazione, di egocentrismo, di volontà di primeggiare. Un uomo anche quando ha tutto sembra spesso cercare qualcosa che gli consenta di andare oltre, di possedere di più.

Gli errori esigono, talvolta, un prezzo carissimo da pagare.

Tutto in iniziò a crollare quando in ufficio fece di tutto per assumere una bellissima ventiquattrenne, senza curriculum, né formazione, né esperienza.

Si diceva: “Uno sfizio da quarantenne me lo potrò togliere, visto che non me lo sono mai permesso!”

Tutti gli associati gli diedero, giustamente, contro. Ma lui aveva deciso. La “segretaria” aveva capelli castani, schiariti da colpi di sole, lunghi e lisci sulle spalle, viso da cerbiatta, labbra carnose, seni morbidi e abbondanti, fianchi procaci, occhi verdi, sempre sgranati in uno sguardo innocente, risata argentina, il vizio di mordicchiarsi il pollice. Il ritratto della purezza, contaminata dall’ambizione. Un piacere averla accanto, sentirla parlare, ma soprattutto ridere: una bomba carica, pronta a esplodere e a lasciare un po’ di vittime ai suoi piedi.

Gabriele, che aveva vent’anni più di lei, iniziava a vedere impercettibili segni di decadenza sul suo fisico ancora aitante. Ma soprattutto iniziava a notare lo sfiorire del corpo della bella moglie. Iniziò una manovra serrata di avvicinamento e lei, che stupida non era, accettò di buon grado le attenzioni del datore di lavoro.

Per Gabriele la famiglia diventò un peso insostenibile, una serie di obblighi e di perdite di tempo; una fonte interminabile di frustrazioni e lamentele, una gabbia! Voleva essere felice, ma non accanto a una donna, che non sapeva amare più come un tempo.

A suo dire, infatti, il sesso con la moglie era poco e insoddisfacente, non più passionale e travolgente come un tempo, perché lei era sempre troppo stanca, troppo presa dai problemi di casa e del lavoro. Inoltre, le figlie, ormai adolescenti, succhiavano linfa vitale alla loro relazione, come due sanguisughe.

Gabriele diventava sempre più scorbutico e irascibile, sempre più chiuso e distante. Trascorreva ore ed ore a chattare con la nuova passione su un social network.

La moglie, che aveva sopportato in silenzio per il bene della famiglia, a un certo punto, esausta, esplose. La reazione lo mandò su tutte le furie. Divorato dai sensi di colpa, si scagliò con violenza sulla donna, che un tempo aveva amato, lasciandola a terra con il labbro spaccato da un sonoro ceffone.

Brutta cosa i sensi di colpa. Ti incatenano ad un angolo, con catene pesanti, lasciando il campo libero al logorio dei propri errori, trasformando l’uomo in una belva famelica pronta a scagliarsi contro le persone più vicine e amate nel vano tentativo di trovare pace. Impossibile ammettere il torto: l’unico modo per sopravvivere è alimentare la bestia con l’orgoglio, con l’unico risultato di rendere agli altri la vita impossibile.

Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Gabriele fu costretto a lasciare casa, moglie e figlie.

Poco male”, pensò all’inizio, “ora posso dedicarmi all’amore, che aspettavo da una vita”.

Fece le valigie e andò a stare dalla nuova fiamma. Per due settimane fu il paradiso. L’ammaliatrice era instancabile e passionale, non come la ‘vecchia’ moglie. Pensava che la sua era stata una non-vita e solo allora iniziava a vivere veramente… Sembrava un autentico riscatto, fino a quando un giorno, dopo aver fatto l’amore per tutto il pomeriggio, la bella passionaria improvvisò:

“Teso’, dopodomani parto per Amsterdam con un paio di amici: tu che fai?”

“Oddio, amore, mi cogli alla sprovvista! Dovrò prendere le ferie, devo fare il biglietto così su due piedi… Per quando devo prenotare il volo?”

La ragazza lo fissò incredula, senza trattenere una risata sguaiata:

“Ma sei scemo? Venire con me? Con i miei amici ad Amsterdam? Fai il serio, dai…”

“Come, scusa, non vuoi che venga con te?” Balbettò Gabriele, del tutto spiazzato.

“Certo che no! Mi rovini la reputazione, saresti solo una zavorra. Andiamo ad Amsterdam per divertirci, non per fare i turisti in una città d’arte. Siamo tutti single e con le peggiori intenzioni, non so se mi capisci…” Ammiccò, strizzando l’occhio in modo sexy…

“Va bene, amore. Vorrà dire che ti aspetterò qui”. Bisbigliò, sempre più incredulo e abbattuto.

“Sei troppo buffo… o stupido… non so cosa sia peggio. Non ti voglio a casa mia!” Disse, continuando a ridere a crepapelle, per l’ottusità dell’uomo. Altro che divario generazionale: non sarebbe bastato un corso di semiotica sistemica per rimettere i ruoli al posto giusto.

“Come non mi vuoi a casa tua? Siamo una coppia, ho lasciato mia moglie e le mie figlie per te! Ti amo con tutto il cu…”

“No, bello mio, nun ce provà! Hai lasciato tua moglie, perché era nà vecchia che non scopava più… Non darmi colpe che non ho. Io sono stata al gioco, perché era divertente ed eccitante, non perché ti amo. Mi piaci, ma sei vecchio, vai bene per qualche seratina… Non ti regge più la pompa, mica posso stare con uno che va’ avanti a zabaglione, per stare al mio passo…”

La verità, bruciante, sputata come un pugno in pieno volto, lo fece andare su tutte le furie. La rabbia montò, alimentata dal senso di colpa. Aveva abbandonato  la famiglia per una donna simile… Come era stato idiota…

La bella giovane si ritrovò per terra con un labbro sanguinante, come la moglie.

Al contrario della moglie, però, che si era limitata a cacciarlo di casa, la bella senz’anima lo denunciò per violenza domestica, facendo sì che per Gabriele cominciassero i guai più seri.

La ragazza, per non portate l’uomo davanti al tribunale, volle una bella somma di denaro, come risarcimento fisico e morale; una somma che, dato lo scandalo, conseguente alla violenza contro la donna, nessun giudice gli avrebbe risparmiato.

Gabriele e soci dovettero pagare, e l’ingente esborso di denaro non preventivato, portò la società sul lastrico. Nessuna possibilità di quotazione in borsa, di strategie di rilancio, di ristrutturazione di logo e claim: la sua creatura si dissolse in un soffio.

Un altro grande errore fu investire il pochissimo denaro rimasto in azioni, per cercare di salvare il salvabile. Gli investimenti ad altissimo rischio di volatilità, fecero azzerare il capitale residuo. La società, con l’accusa di bancarotta fraudolenta, fu costretta in una seduta di tre minuti, davanti al tributarista, a licenziare i dipendenti. Il sogno di una vita era definitivamente tramontato.

Gabriele si ritrovò senza neanche i soldi per pagare l’affitto di un monolocale, – o meglio un camerone di 30 metri quadri, composto di tinello e bagnetto, separati da un letto -, in un residence di spacciatori, prostitute e residui vari di dolente umanità. Finì a dormire nella macchina. Non più il SUV nero metallizzato, ma uno ‘scassone’ di seconda mano, che gli aveva ceduto l’ex moglie in un momento compatimento.

L’auto era ferma in un parcheggio semi-abbandonato, dove non passavano vigili urbani, a  controllare che l’assicurazione, scaduta da mesi, non era stata rinnovata. L’utilitaria era ridotta a cucina, letto, latrina… Era deciso a morire di fame e di freddo in quella macchina.

Dopo tutti i guai che aveva combinato e tutta la gente che aveva fatto soffrire, per appagare il suo egocentrismo, sentiva di meritare solo una morte indegna, abbandonato da tutti. Sarebbe riuscito nell’intento, se una sera, mentre tremava dal freddo, rannicchiato sotto una coperta di fortuna nella macchina, uno sconosciuto non avesse bussato al finestrino.

“Tutto bene?”

Gabriele si ridestò dal torpore, per vedere oltre il finestrino la gente, che lo fissava preoccupata.

“Tutto bene!” Bofonchiò, mentendo più a se stesso che a loro.

“Per fortuna! Perché non esce dalla macchina? Le possiamo offrire un panino ed una bevanda calda? Con questo freddo le possono far bene…” Insistette l’ospite inatteso.

Alla fine cedette all’invito dello strano sconosciuto, che gli offriva un panino e del latte caldo. Cose semplici, che a Gabriele sembrarono delle prelibatezze.

Quando si è sull’orlo della disperazione la parola di una sconosciuto fa la differenza…

L’ex pubblicitario fallito iniziò a fidarsi di ‘quella gente’, che l’aveva salvato da una brutta fine. Dopo le visite serali settimanali, in macchina, con panini e latte caldo, Gabriele venne invitato a recarsi, quando aveva fame, in un luogo che accoglieva tutti, senza problemi.

Così si era trovato alla mensa di via Dandolo 10, dove poteva trovare la cena sempre pronta. Poco distante da lì, a via Anicia, vi era un centro di accoglienza che distribuiva generi alimentare e vestiti. Rimase di stucco scoprendo che c’erano anche le docce calde, gratuite, con sapone e biancheria nuova per tutti. Pianse di nascosto al pensiero dei mesi in cui non era riuscito a lavarsi, se non al bagno del Mac Donald’s, dopo infiniti sotterfugi.

Lì aveva trovato anche un medico a cui aveva fatto vedere, dopo il timore iniziale, un’irritazione cutanea tipica di chi non può permettersi un’igiene personale sufficiente. “Niente di grave”, gli aveva risposto il dottore, “prova questa lozione per una settimana, poi torna da me per un controllo. Mi raccomando, ci tengo a vedere se sei guarito”.

La voglia di morire cedette presto il passo a quella di ricominciare. Aveva ricevuto aiuti da tante persone, verso cui provava profonda ammirazione e amicizia.

Assorto nei pensieri, non si era accorto che era arrivato il suo turno per poter entrare a mangiare. Luca lo richiamò alla realtà.

“Gabriele! Guarda che puoi entrare… ho capito che ti piace stare con noi, ma così farai raffreddare tutto!” Affermò, dandogli una pacca sulla spalla.

Luca l’aveva trovato semi-congelato in macchina quella fatidica notte. Aveva preso a cuore la sua storia, che per lui era diversa da ogni altra, ma in realtà si poteva considerare banale, diffusa, come gli aveva fatto notare l’amico. Le famiglie, infatti, si disgregavano sempre più spesso, inducendo i mariti a vivere per strada, e poteva anche capitare che, a causa della crisi, intere famiglie, un tempo benestanti, finivano nell’indigenza. I nuovi poveri, li chiamavano. Questa rivelazione, unita a tante altre, avevano contribuito a pacificare l’anima di Gabriele. Era riuscito a trovare un minimo di auto-stima e di fiducia per il domani.

“Allora, ti vuoi muovere?” Lo bacchettò, ironico, Luca.

“Adesso vado”, disse l’uomo, alzandosi dalla panchina e stiracchiandosi come un orso, che esce dalla caverna a primavera.

“Vai, che dopo ho una bella sorpresa per te!”

“Interessante… cos’è? Lo posso sapere?”

“No, è una sorpresa”, gli rispose Luca, strizzando l’occhio, mentre si allontanava.

“Mah! Se non siete matti qui non vi prendono …” Ironizzò, fra sé e sé, mentre andava a mangiare.

Gabriele gustò la cena in compagnia di commensali occasionali. Al suo tavolo c’erano una famiglia Rom con tanti bambini, due signori distinti che, ultimamente, non se la dovevano passare bene e il famosissimo trans sudamericano da 160 chili! Un tavolo così ben assortito non l’aveva mai visto prima; e, probabilmente, se l’avesse descritto in giro nessuno gli avrebbe creduto. Eppure questa era la sua quotidianità, non l’eccezione. In un momento storico così difficile solo i volontari della Comunità di Sant’Egidio potevano gestire tavolate così assortite.

Li si poteva definire angeli silenziosi: con una parola e un gesto umano, gratuito e raro, avevano salvato numerose vite come la sua. Da quando Gabriele aveva fatto pace con se stesso e con il mondo che lo circondava, la cena alla mensa era diventata più buona. Ma quel pomeriggio non poteva perdere tempo in speculazioni filosofiche, perché lo attendeva la sorpresa e la curiosità doveva essere appagata il più presto possibile. Si sbrigò a finire l’ultimo piatto, per uscire alla ricerca di Luca.

“Marina, hai visto Luca per caso?” Chiese a una delle responsabili della mensa. Marina non era una semplice responsabile, era l’unica capace di tenere a banda, con un solo sguardo, il più invasato degli ospiti, che si presentava alla mensa. Una donna forte e amorevole, che prendeva a cuore la vita di tutti gli ospiti.

“L’ho visto alle aule della Scuola di italiano”.

“Cavolo! Mi aveva promesso una sorpresa, ma se è impegnato a scuola vorrà dire che sarà per la prossima volta”, rispose deluso, mentre stava per andarsene.

“Mi ha detto di farti salire, ti aspetta lì per questa famosa sorpresa”, controbatté Marina.

Gabriele si precipitò di corsa verso le scale, che portavano alle aule, dove i nuovi europei studiavano l’italiano, saltando i gradini due a due. Alla fine della scalinata aveva il fiatone, ma divorato dalla curiosità, continuò a cercare il suo amico.

“Luca! Dove sei?”

“Nell’aula in fondo, sbrigati!”

Gabriele corse verso l’aula e si bloccò impietrito sull’uscio. Non riuscva a credere ai suoi occhi. Vicino a Luca c’era Silvia, la sua ex-moglie, che lo fissava commossa e silenziosa. La donna non disse nulla, sarebbe stato superfluo, allungò solo le braccia, per accogliere di nuovo Gabriele nella sua vita. I due si strinsero teneramente, con gli occhi lucidi dalla commozione. A Luca non rimase altro che andare via in silenzio, per non disturbare il loro momento, contento di aver contribuito, insieme a tanti altri, ad aiutare Gabriele a ritrovare la sua vita e la sua serenità.

Bianche mura

John Paul, disteso sul lettino, fissava le mura bianche. Dopo troppi anni, non erano più neanche tanto bianche. Non si erano ingiallite, l’uomo, con infinita fantasia, durante i diciotto anni di reclusione, le aveva dipinte, a più riprese, con vari colori. Era partito dal celestino fino ad arrivare al rosso, al viola e al turchese intenso… Abbinava le tinte all’umore del momento.

Diciotto anni di reclusione passati in una cella di tre metri per due nel carcere di massima sicurezza di Huntsville, in Texas, ovvero negli Stati Uniti d’America. Il grande paese leader, che esportava la bandiera della democrazia nel mondo intero.

John da lì a poco sarebbe ritornato libero, non perché avesse finito di scontare la pena, era uno dei tanti uomini condannati a morte, che aspettavano l’imminente esecuzione.

Dopo due rinvii era giunto il suo momento. Per due volte aveva percorso il lungo corridoio, fino alla camera dell’esecuzione e, per due volte era tornato indietro, perché i suoi legali e tutti gli amici, attivisti dei diritti umani, erano risusciti a far rinviare la condanna.

Per due volte era stato fortunato, ma sentiva che si avvicinava la volta “buona”.

Fissò con nostalgia la cella, dove aveva trascorso la parte più significativa della sua vita. Pareti bianche, senza finestre, con un letto che di confortevole e riposante aveva ben poco, arredata con una semplice scrivania e una sedia abbinata. Era diventata un po’ la sua casa, che, paradossalmente, gli sarebbe mancata.

Era stato arrestato, diciassettenne, in quanto colpevole di un omicidio. Al contrario di tanti altri condannati a morte, lui aveva commesso l’omicidio, ed era, un reo confesso. Aveva premuto il grilletto della pistola, uccidendo una donna ricca, dopo averla seguita fino a casa con tre “amici” per rapinarla e violentarla.

Era colpevole e non si dava pace.

Se avesse avuto un bravo avvocato, di quelli che costano tanto e si vedono in televisione, con molta probabilità la pena di morte non gliel’avrebbero comminata. Ma era afroamericano, o meglio nero e, per di più, povero: due caratteristiche che in Texas e, in qualsiasi altro paese, non sono vincenti. Era stato affidato a un avvocato d’ufficio, che alla prima udienza, non si presentò, e che sbagliò il nome del suo assistito per tutta la durata del processo. John non era solo un nero, agli occhi di tanti rappresentava la feccia, come dicevano spesso i secondini, che, con quelli come lui, non ci andavano leggeri.

Un criminale fin da piccolo. Egli non ricordava neanche un giorno, – a parte quelli passati in carcere -, in cui non avesse commesso almeno un reato. Quella notte tragica, però, le superò tutte: non era più solo spaccio di erba o auto rubate. Si erano fatti di cocaina, della droga dei ricchi, e non di quella merda che usavano loro, gasati all’idea di spaccare il mondo, di prendersi una rivincita. Decisero di festeggiare, di lasciare il segno con qualcosa di memorabile. Sembrò naturale a menti ottenebrate dalla rabbia e dalle dipendenze, rapinare un negozietto aperto 24 ore su 24, e poi regalarsi una gran scopata. Ma anche lì bisognava pensare in grande: non la solita prostituta tossicodipendente da marciapiede ci voleva una donna vera. Strafatti di cocaina e di alcol, girarono tutta la notte, finché non incontrarono la loro preda. Una signora di lusso, bella, di classe, l’abito nero, che si muoveva aggraziato, con movenze che avrebbero fatto resuscitare i morti. La seguirono fino a casa, mentre apriva la porta la spinsero dentro e poi…

Buio…

Risa e urla, sangue, le mani bagnate, tutto freddo, una sirena, il lampeggiante sui visi, dolore di ossa spezzate, nessuno rideva più…

John non ricordava tutto di quella notte, e non poté dare una versione attendibile dei fatti. Seppe che era risultato positivo al test della polvere da sparo e che sulla pistola c’erano le sue impronte. Di fronte a questi dati schiaccianti,  il giudice non ebbe dubbi e lo condannò a morte.

La vita non era mai stata facile per John. Una vita dura, violenta fin dalla nascita. Era cresciuto nella povertà e nel degrado, Senza l’amore dei genitori, visto che la madre, prostituta eroinomane, entrava e usciva dal carcere e non sapeva chi fosse suo padre… Forse uno dei clienti della mamma, oppure uno dei tanti ragazzi/protettori. Gran parte dell’infanzia l’aveva passata con le famiglie affidatarie, quelle che prendono un mese in prova per accaparrarsi il sussidio statale.

Ricordava con infinita angoscia la prima volta che aveva dormito da solo. Aveva quattro anni. Né la mamma né il ragazzo di turno erano rientrati a casa quella notte; forse erano stati arrestati. Fu la notte più lunga della sua vita. Aveva paura anche di piangere, perché non voleva che l’uomo nero, che attendeva nell’armadio, se ne accorgesse, e balzasse fuori a prenderlo. Mentre le lacrime gli rigavano silenziose il viso, prese una coperta e un cuscino e con il suo peluche, Teddy, si nascose dietro la lavatrice, in bagno. Rimase lì tutta la notte, cercando di non addormentarsi, per essere pronto ad affrontare il mostro. Ma alla fine il sonno ebbe il sopravvento… La madre lo trovò il pomeriggio seguente che dormiva in posizione fetale, nel suo nascondiglio.

Quell’episodio fu il primo di una lunga serie di incidenti, che segnarono la sua infanzia. Spesso ‘i fidanzati’ della madre sfogavano la loro frustrazione su di lui, punendolo per ogni piccolo capriccio con pugni e calci. La donna, qualche volta, provò a opporsi, in quanto, a modo suo, voleva bene al bambino, ma il risultato che riuscì a sortire fu di essere picchiata a sangue anche lei. A dodici anni il capo pusher della zona lo obbligò a spacciare per conto suo, con la conseguenza, non solo di farlo diventare un tossicodipendente, ma anche di sottometterlo al continuo ricatto di essere picchiato a sangue se non vendeva abbastanza o perdeva la roba. Crebbe male, in fretta, a furia di botte e di droga.

Steso sul letto della cella sorrise stanco. Se avesse raccontato a qualcuno la sua storia non sarebbe stato di certo creduto.

Certo, tutte a te, che sei la vera vittima del sistema!” “Ma a chi la vuoi dare a bere?” “Ammazza che jella, forse era meglio se non nascevi!” Sarebbero state, forse, le risposte più probabili.

Eppure la sua storia era tutta vera e neanche così originale, un cliché ‘normale’ dalle sue parti. Ogni tanto era stato fortunato. Molto fortunato rispetto a David, per esempio, un amico a cui aveva voluto bene davvero…

A differenza di John,  David aveva il papà e fu proprio questa la sua maggiore sfortuna. Infatti era un uomo alcolizzato e violento, che lo picchiava tutti i giorni senza pietà. David aveva spesso ossa rotte e ferite profonde. Un giorno il padre, particolarmente ubriaco, dopo averlo pestato a sangue, mentre era ancora e riverso a terra, semi incosciente, in una pozza di sangue, prese la pistola e gli sparò in mezzo agli occhi. Un solo secondo e fu tutto finito. I testimoni raccontarono che dopo aver sparato, a sangue freddo, scoppiò a ridere, come davanti al più esilarante dei film comici. Nonostante avesse confessato l’orrendo crimine davanti alla Giuria, paradossalmente non fu condannato a morte perché, a differenza di John, aveva ammazzato altra ‘feccia’ e poteva beneficiare di varie attenuanti.

‘Se la feccia si elimina da sola è solo un bene’, ripeteva, spesso, un secondino.

David aveva solo quindici anni…

La vita di John non era stata sempre brutta e piena di violenza. Aveva passato anche anni belli e felici. Anni, per ironia della sorte, trascorsi in carcere, aspettando l’esecuzione. Il carcere, per quanto fosse duro, non era la strada con la sua violenza cieca. Aveva studiato, lavorato, frequentato corsi biblici, e aveva scoperto cosa volesse dire essere un uomo. Aveva conosciuto gente disposta ad ascoltarlo.

John e i ragazzi come lui, avrebbero avuto bisogno di qualcuno che desse loro una possibilità…

Il primo a tendergli una mano fu padre Michele, un prete italiano, che si era trasferito in America per sostenere i condannati a morte. Era un uomo con il quale amava tanto parlare, perché al contrario degli altri possedeva una qualità preziosissima: sapeva ascoltare. Il prete italiano, inoltre, al contrario di tutti, non lo giudicava; gli voleva bene e basta e lo faceva sentire in pace con se stesso.

Oltre a Padre Michele, aveva usufruito anche di altri contatti speciali, come le associazioni americane per i diritti dell’uomo, o come una ragazza della Comunità di Sant’Egidio di Roma, che con regolarità, gli spediva lettere affettuose, cariche di speranza, oltre che di un piccolo tributo economico.

I soldi necessari ad istruire un nuovo appello furono trovati proprio grazie a questa comunità.

Tutto questo sarebbe presto finito. Nel pomeriggio sarebbero venuti a prenderlo e, per la terza volta, avrebbe percorso il lunghissimo corridoio verso la stanza dell’esecuzione.

Fortunatamente il mito dell’ultimo pasto del condannato a morte era una leggenda metropolitana. Dopo tanti anni chiuso lì dentro a mangiare sempre e solo le stesse cose, non avrebbe saputo scegliere niente di speciale. Meglio andare via con i sapori familiari in bocca…

Mentre sorrideva dei pensieri assurdi, che gli affollavano la mente, sentì aprirsi le sbarre della cella.

La figura rassicurante di Padre Michele si materializzò all’ingresso della cella. Anche quella volta il prete italiano l’avrebbe accompagnato fino alla stanza. Oltre a una gratitudine immensa, provò un moto di pena per quell’uomo, che aveva scelto di stare vicino, fino all’ultimo, a gente condannata al suo stesso destino.

“Salve Padre Michele, come sta? La vedo in ottima forma!” Disse, con affettuosa ironia, l’uomo.

“In eccellente forma”, rispose, allegro, il prete.

Non c’era bisogno di dire altro, dopo tanti anni di amicizia bastava poco a entrambi per capirsi, e John sapeva benissimo che, se solo avesse potuto, Padre Michele avrebbe preso il suo posto.

“Hai visto l’ultima partita dei Texas Rangers? Sono stati fenomenali!”

“L’abbiamo vista in sala mensa. Per fortuna ultimamente si sono ammorbiditi…” rispose, strizzando l’occhio.

“Già, sarebbe stato un peccato perdersela. Partite simili si vedono poche volte nella vita!”

I due amici continuarono a parlare per un’ora. Discorsi allegri e frivoli: l’inespresso, il non detto, il sottinteso, traspiravano dagli sguardi, rimbalzavano dallo sguardo dell’uno a quello dell’altro. A cosa sarebbe servito fare discorsi seri e tristi poco prima della morte? Meglio godere gli ultimi momenti in serenità, con una delle poche persone che gli avevano voluto veramente bene.

Ma, puntuali come sempre, i secondini arrivarono a prendere il detenuto. Legato con una lunga catena, che univa i piedi ai polsi, abbigliato con la consueta tuta arancione, lo condussero lungo il corridoio, esibendolo come un trofeo. Padre Michele li seguiva, in silenzio, con in mano la Bibbia, unico, vero conforto, in momenti come quelli.

John provò un senso di sarcasmo. Che senso poteva avere una scenografia così ben allestita? Legato in quel modo, scortato da due energumeni…  come se fosse potuto fuggire! E come se avesse voluto fuggire dopo tanti anni, due rinvii e i sensi di colpa che avvertiva.

La lunga detenzione avevano annientato la voglia di vivere…

Lungo l’interminabile tragitto nessun detenuto ebbe il coraggio di guardarlo in faccia. Non per disprezzo, ma per paura. Sapevano che prima o poi anche loro avrebbero fatto il suo stesso viaggio.

Dopo un tempo che sembrò infinito, arrivarono davanti alla stanza dell’esecuzione. Lì dentro Padre Michele non sarebbe potuto entrare, furono costretti a salutarsi di fronte alla porta grigia. Un lungo abbraccio e lacrime silenziose. Nessuna parola di commiato, nulla di nulla. Le parole volano, i gesti restano.

John entrò nella stanza. Le pareti erano circolari, quasi ovali, di color bianco, tutto in quel carcere era di color bianco-grigio. In mezzo alla stanza vi era il famigerato lettino a forma di croce, con le cinghie e gli strumenti necessari per iniettare i tre liquidi mortali. Alla sinistra il “sipario”, le spesse tende di velluto, dietro le quali la vetrata permetteva a coloro che ne avevano diritto di assistere all’esecuzione.

Ironica coincidenza: due stanze ovali con due neri al loro interno: solo che uno era l’uomo più potente del mondo e l’altro l’ultimo della ‘feccia’…

I secondini tolsero le catene e lo fecero “accomodare” sul lettino. John sentì le cinghie di cuoio che gli stringevano le braccia, le gambe e il torace. Fu una sensazione strana sentire il sangue che premeva sotto le cinghie. Il dolore, il bruciore, la pelle schiacciata e tirata…

Dopo aver assicurato John al lettino, entrò “il boia”, che era un operatore medico, che doveva inserire l’ago nel braccio e constatare la morte del detenuto. John lo guardò con profonda tristezza. Provava pietà mista allo schifo per l’ingranaggio di quel sistema, pronto a svolgere con zelo, l’infausto servizio.

Si poteva ancora dormire bene la notte dopo aver tolto la vita a qualcuno? Lui non ci era riuscito per diciotto anni…

Quando finalmente tutto fu pronto, uno dei secondini aprì il sipario. Disposti su tre file di sedie ordinate, vari spettatori. Il Direttore del carcere, il Procuratore, l’ex compagno della vittima, ma soprattutto Padre Michele, che con il suo sguardo infondeva un sentimento di speranza.

John guardò per l’ultima volta l’amico, chiese perdono per i suoi peccati e si girò verso l’addetto medico, come per dare l’assenso a procedere.

Fece un solo cenno con il capo.

Il “boia” schiacciò il pulsante, che avrebbe fatto defluire la prima delle tre sostanze letali nel corpo. Appena la sostanza si esaurì, la testa di John iniziò a girare vorticosamente, come se fosse ubriaco.

Fece in tempo solo a vedere la seconda sostanza spessa e bruna iniettata nelle vena, prima di abbandonarsi a uno stato sospeso, come di sonno senza ristoro…

Alla ricerca di qualcosa di speciale

Nei primi anni novanta Dario, un adolescente, come tanti altri, si sentiva irrequieto, percepiva la mancanza di qualcosa di indefinito… Non sapeva dire cosa volesse, visto che aveva tutto, o, perlomeno, quasi ogni cosa che desiderava. Era di buona famiglia, ceto alto borghese – oggi questa definizione è superata, ma, all’epoca, era ancora molto in voga – una vita agiata, da benestante. Il padre, primo dirigente delle Forze dell’Ordine, la mamma insegnante, come si confaceva alle donne di un certo livello, che avevano scelto di lavorare. Abitava in un grande appartamento in un complesso residenziale in zona Roma sud. Studiava, aveva il motorino e vestiva abiti firmati.

Forse gli mancava la fidanzata, visto che si era lasciato da poco dal primo grande amore. Ma, in effetti, era convinto che non fosse quello il motivo… Non sapeva dove cercare.

A fine dicembre del 1993 si trovò a casa di un amico per una notte brava, approfittando dell’assenza dei genitori. Niente di sconvolgente, una nottata divertente, trascorsa a sfidarsi ai giochi di ruolo, altra sua grande passione. Fra un tiro di dado e una carta, si fecero le sei del mattino. Erano tutti distrutti: avevano fatto fuori un enorme drago rosso in maniera epica e si gustavano il meritato riposo dei guerrieri. I cinque amici si dispersero, in ordine sparso, nella casa ridotta a un bivacco, alla ricerca del giaciglio più comodo Chi si stese nella vasca da bagno, chi accanto al gatto, tutti trovarono un posto ideale. Grazie alla sua abilità e a un pizzico di fortuna, Dario riuscì a conquistare il divano… Beato e gongolante, per la seconda impresa epica andata a buon fine, si abbandonò tra le braccia di Morfeo, ma verso le otto del mattino fu richiamato alla realtà dal rumore della porta d’ingresso che si apriva…

“Chi va là?” Azzardò, con fare intimidatorio, ancora infervorato dalla mitica avventura trascorsa.

“Sono io… Dormi, che è meglio!” Esclamò, seccato, Luca, il fratello del padrone di casa.

“Luca, ma che cazzo fai! Sono le otto del mattino! Vai a dormire invece di rompere”.

“Dormi, tanto io ora esco”.

“Esci? Ma sei scemo! Non hai riposato neanche due ore”.

“In effetti sono a pezzi, ma ho fatto una bella doccia e ora sono pronto”.

“Dove cavolo vai a quest’ora?”

“Vado a pranzo con un barbone…” Le ultime parole di Luca, prima di sparire dietro la porta.

“A pranzo con un barbone?” L’ultimo pensiero che accompagnò Dario, mentre ritornava, beatamente, fra le braccia del mitico, Morfeo.

***

Alcuni giorni dopo la grande nottata, come ogni sabato che si rispettasse, si ritrovarono a casa di Andrea, per la consueta sessione di gioco. C’erano tutti, tranne Luca.

“Andrea, ma che fine ha fatto Luca?” Chiese Dario, incuriosito.

“Che vuoi che ne sappia di quello che fa mio fratello… Si vedeva con un gruppo per una riunione, ma non so di preciso di cosa si trattasse”.

“Certo che tuo fratello ultimamente è strano”.

Dopo il breve intermezzo, il gruppo di amici tornò a giocare. Verso le 21 Luca tornò all’ovile…

Si sedette al tavolo e scelse i suoi dadi preferiti. Dario rimase a guardare incuriosito l’amico che, a parer suo, non gliela raccontava giusta. Decise di iniziare a sondare il terreno.

Chiese: “Scusa, Luca, ma quella mattina dov’è che sei andato?”

Luca, che si aspettava la domanda, perché conosceva la curiosità malsana di Dario, rispose con un sorriso sfacciato, come al solito: “A pranzo con un barbone, perché?”

Perché? Come se andare a pranzo con un barbone fosse la cosa più normale del mondo! Era chiaramente provocatorio: se Dario era curioso come un gatto, Luca era più dispettoso di una scimmia.

“Scusa, ma a te sembra normale andare a pranzo con un barbone?”

In effetti, per ragazzi alto – borghesi come loro, non era affatto scontato, anzi era assurdo. Se il padre di Dario, alto funzionario della Polizia di Stato, avesse saputo una cosa del genere, di certo non ne sarebbe stato entusiasta…

Eppure in quella affermazione così provocatoria, qualcosa lo aveva colpito.

“Ok, sacro missionario del fantasy, spiegati meglio… Perché sei andato a pranzo con un barbone?”

Luca era divertito, perché sapeva bene che Dario stava morendo di curiosità. Decise di portare avanti il gioco ancora per un po’ Alla fine, proprio poco prima che la sottile corda che tendeva si spezzasse, iniziò a raccontare la sua storia.

“Da qualche mese faccio parte di un gruppo, si chiama CSP – Città Scuola Parola -. Facciamo il dopo scuola ai bambini poveri del “Mandrione” di Spinaceto.

Dario non sapeva neanche dove si trovasse quel luogo; per lui il mondo civilizzato finiva all’inizio della Pontina.

“Ci vediamo ogni mercoledì. Per festeggiare degnamente il Natale, domenica abbiamo deciso di organizzare un pranzo con un barbone”

Dario rimase colpito. Non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi che si potesse fare il dopo scuola ai bambini poveri, né tantomeno che si potesse pranzare con un barbone. La curiosità saliva e aveva qualcosa di simile a una ventata di aria fresca.

“Ammazza come sei diventato buono!” Rispose, sarcastico, perché non voleva dare soddisfazione a Luca. “Ma si può venire a vedere di cosa si tratta? Magari potrei scoprire che mi piace e venirci anch’io”.

“Non lo so, devo chiedere se puoi venire… Fu la gentile risposta di Luca, che non smetteva di provocare.

“Hai capito! Ma sai che c’è? M’è passata la vojja de veni’ a vede che fate co l’amici tua santi!” Rispose Dario, punto sul vivo. Il suo secondo maggior difetto, dopo la curiosità, era, infatti, la permalosità. La conversazione terminò lì e anche la partita dopo poco si concluse tragicamente; il master era di cattivo umore e fece morire tutti i personaggi in maniera sadica.

***

Un mercoledì pomeriggio Dario poltriva sulla sua poltrona preferita, cercando di far passare il tempo, quando fu svegliato dallo squillo del telefono di casa. Preso di soprassalto e con la paura di svegliare sua madre, si precipitò all’apparecchio.

“Pronto” Sibilò.

“Ciao Dario, sono Luca”.

“Luca! Ma che cazzo, chiami a quest’ora? Lo sai che mia madre riposa e si incazza se chiamano gli amici!”

” Scusa, hai ragione, ma parliamo di cose serie: sei ancora interessato a venire alla scuola popolare?”

“Alla scuola popolare? Che cavolo è?”

“Dai, il dopo scuola ai bambini poveri!”

“Ah , quella cavolata da santo, che fai con gli amici tuoi..” Rispose, acido, per non dargli soddisfazione.

“Proprio quella. Allora, ci vieni o no?”

“Non saprei… Sai, ho un sacco di cose da fare”.

“Come no. Ma se stavi a dormì come un ghiro! Guarda che te conosco…”

“Va bene, va bene! Ma almeno ci sono le ragazze?” Chiese, più per provocare, che per convinzione, anche se l’idea di conoscere nuove amiche lo solleticava.

“Che palle che sei! Voi veni’ o no?” Rispose Luca, innervosito, mentre si chiedeva perché dovesse insistere con un tale decerebrato.

“Va bene, tanto non ho nulla da fare oggi. Almeno mi passa la giornata”.

“Bravo, fattela passa’ sta giornata, e vienimi a prendere con il motorino, che andiamo insieme”.

“Sempre bravo a scrocca’ i passaggi, tu”.

***

Per Dario varcare quel confine invisibile era un po’ come per i marinai del ‘500 salpare verso l’orizzonte; era convinto che prima o poi il mondo sarebbe finito e sarebbe caduto nel vuoto. Una distanza di poco più di dieci minuti in motorino, costituiva una frattura culturale così grande da sembrare quasi invalicabile. Fu il viaggio più lungo e faticoso che Dario, ancora oggi, ricordi. Ovviamente ai genitori non disse nulla, perché, se solo avessero immaginato dove era diretto, l’avrebbero messo in punizione, pur di non lasciarlo andare. Ma la curiosità era troppa e il senso di ricerca che avvertiva da tempo, era in fermento. Prese il motorino e si recò con Luca al “Mandrione”. Dario notò subito che era molto diverso dal suo quartiere: i palazzoni di edilizia popolare erano cadenti, i prati incolti e la gente aveva uno sguardo malinconico. Entrò nel teatro di quartiere, dove si faceva scuola popolare. Una ragazza, Maria, andò verso di loro per accoglierli. Si presentò come la direttrice della scuola e raccontò, nel dettaglio, come si svolgeva il pomeriggio. L’idea che una ragazza di solo un anno più grande di lui fosse la direttrice della scuola lo stimolò molto. In un periodo in cui ragazzi venivano trattati da bambini cresciuti e viziati, a cui non si dava credito, né tantomeno responsabilità, scoprire  che una sua coetanea si assumesse grandi responsabilità lo colpì positivamente.

“Bene, ora sai più o meno come si svolge il dopo scuola. Ma la cosa più importante è che devi voler bene ai bambini. Spesso il loro vero problema è il non sentirsi amati”. Disse Maria.

“Scusa, ma non hanno i genitori?” Dario non capiva come si potesse non voler bene ai bambini.

“Sì, ma non significa che riescano a fare tutto il necessario per dar loro l’affetto necessario. Molte mamme sono prostitute e i papà vivono in prigione, in quanto spacciatori… Non è un mondo facile e i bambini vengono lasciati soli o, nei migliori dei casi, affidati alle nonne, o ad altri parenti, che non se ne prendono cura.”

Dario non aveva mai immaginato che ci potesse essere tanto dolore vicino a casa sua. I problemi esistevano, lo sapeva bene, ma li aveva sempre pensati lontani, non a portata di mano. La breve conversazione lo mise nel panico. Non si aspettava di dover affrontare esperienze così importanti, al massimo aveva pensato di fare il dopo scuola a bambini ignoranti… Maria intuì le sue resistenze, e aggiunse con dolcezza: “Non ti preoccupare, l’importante è volergli bene, il resto viene da sé…”

“Certo, volergli bene!” Ripeteva, come in un mantra, più a se stesso che a Maria. Mica era facile… Come si poteva affezionarsi a monelli sconosciuti? Si accorse del punto nodale: non aveva mai voluto veramente bene a nessuno, se non alla sua famiglia.

“Tranquillo”, continuò Maria, “vedrai, è più facile di quanto pensi!”

La giovane accompagnò Dario nella sala, dove si faceva lezione. Vi erano i tavoli con tanti bambini e altrettanti ragazzi come lui, che aiutavano a svolgere i compiti. Un bellissimo colpo d’occhio, che lo lasciò senza parole. Dopo il primo attimo di smarrimento si diressero vicino a Mariangela, che studiava con un bambino di otto anni. Il bimbo indossava occhiali enormi, smisurati, aveva capelli rasati, con un lungo ciuffo tenuto su da litri di gelatina e aveva perso da poco gli incisivi superiori. Arrivati al tavolo, Maria fece le presentazioni.

“Mariangela, questo è Dario e può studiare con voi.

Poi si rivolse al bambino: “Mi raccomando, è un mio caro amico, trattalo bene!” E gli scompigliò affettuosamente il ciuffo.

Il ragazzino guardò dal basso verso l’alto il nuovo arrivato e Dario fece altrettanto. Dopo pochi secondi di reciproca valutazione, il bambino, con un grosso sorriso, porse la piccola mano verso Dario.

“Piacere, sono Sandro Pagani”.

Un po’ titubante il giovane ricambiò il gesto; un bambino che stringeva la mano come un adulto era un evento raro, da lasciare nello sconcerto. Appena stretta quella piccola mano, Dario capì di cosa era in cerca. All’improvviso fu tutto chiaro: aveva bisogno di qualcuno di cui prendersi cura, per cui essere importante, qualcuno a cui voler veramente bene. Dario cercava responsabilità in un epoca in cui ai giovani non veniva accordata.

Da quella stretta di mano in poi, per Dario e Sandro cambiarono molte cose: fu l’inizio di un’amicizia che li portò lontano. Sandro, anche grazie anche a Dario, non solo si salvò dalla violenza in cui viveva, ma divenne un rispettabile Carabiniere, che ogni giorno, continua a compiere onestamente il suo dovere.

Può un uomo rinascere quando è vecchio?

Si può nascere due volte?

Eugenio era un anziano dallo spirito indomito. Professionista dell’alta borghesia romana, lavoratore instancabile, alla fine della carriera aveva messo da parte un cospicuo patrimonio. Poteva definirsi un uomo realizzato. Ricco ed in salute, aveva condotto una vita molto intensa, nel corso della quale aveva vissuto esperienze d’ogni genere e tanti amori. Aveva anche sofferto molto: la vita è democratica e, non fa distinzioni né sconti a nessuno. Alcune tragedie personali l’avevano segnato profondamente, ma era rimasto un uomo forte e lucido.

A poco più di settant’anni si era ritrovato con un nipote, che adorava più di qualunque altra cosa. In più, aveva alcuni amici, con cui giocava a poker durante la settimana.

Ma nessuno può sapere cosa riserva la vita: spesso un incontro casuale, all’apparenza irrilevante, può far deviare dalla strada intrapresa, che sembra procedere uguale a se stessa all’infinito, senza scossoni. Venne invitato da un uomo di trent’anni ad aderire ad un movimento di anziani, che volevano fare qualcosa di costruttivo per il mondo in cui vivevano. L’invito lasciò Eugenio molto perplesso. Si domandò se un uomo come lui, che aveva vissuto tanto e che era arrivato a un traguardo, potesse rimettersi in gioco e adoperarsi per il prossimo.

“Può un uomo rinascere se è già vecchio?” Si domandò.

Si può tornare a fare qualcosa di utile, a essere rilevanti per gli altri e per la società, quando si è anziani?

Era un po’ incerto, ma sentiva, tuttavia, una spinta ad accettare la sfida.

Decise, così, di seguire il giovane fino a un quartiere, che distava pochi chilometri da casa sua. Per trovare bisogna anzitutto cercare, ne era perfettamente consapevole. Per un uomo ricco e colto scoprire che la risposta alle sue domande si trovava praticamente dietro casa, in un quartiere popolare e periferico della Capitale, conosciuto come Spinaceto – Tor de Cenci, fu una sorpresa notevole. Si sarebbe aspettato di spostarsi in un luogo importante e un po’ aristocratico.

Siamo spesso convinti che le migliori risposte alle nostre domande, il luogo della tanto auspicata felicità debba essere lontano e irraggiungibile, quasi mistico, irreale.

E invece la vita può sorprendere con la semplicità delle grandi soluzioni.

Il luogo, dove erano custodite le risposte alle sue domande, il centro mistico e nascosto agli occhi dei più, che Eugenio, inconsapevolmente cercava, non si trovava nel centro della Città Eterna, ma in un’umile periferia. Seppur molto vicina a casa sua, gli era rimasta sempre molto distante. Come un barato incolmabile, operava una frattura fra le due sponde, e sembrava non permettere a quelli della sponda serena e, apparentemente appagata, di andare dall’altra parte.

Servì l’amicizia speciale con Pina, la prima donna che conobbe in quella comunità, a fargli varcare una frontiera, che credeva invalicabile.

Pina, più giovane di lui, gli insegnò molte cose, ma due furono particolarmente importanti.

Innanzitutto capire come il Vangelo fosse “così importante per le persone”. Una constatazione rivoluzionaria anche per uno che, come lui, era “sempre stato nell’ambito della Chiesa”. Una scoperta che lo fece “innamorare del Vangelo”, per il modo semplice in cui veniva spiegato, ma soprattutto per il modo pieno in cui poteva essere vissuto.

In secondo luogo la scoperta che esisteva una risposta alla domanda: “Si può nascere due volte?”

Pina era una responsabile dell’ambizioso progetto di cura dell’AIDS in Africa, noto con l’acronimo di D.R.E.A.M. (Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition). Con gli anni il progetto era divenuti un protocollo sanitario, che oggi sostiene e salva dalla morte migliaia di donne, uomini e soprattutto bambini.

Dai racconti appassionati di Pina sull’Africa e sul progetto DREAM, Eugenio provò un nuovo moto, un ardore, che nonostante la sua età, lo spinsero a desiderare di recarsi in Africa. Aveva viaggiato tanto e aveva visto tanti luoghi, come era possibile che non avesse mai visitato l’Africa?

Eugenio chiese a Pina, di poterla accompagnare in uno dei suoi viaggi. E fu in quell’occasione che comprese il senso profondo della sua domanda. Seppure la volontà non mancasse, bisognava fare i conti con la debolezza del proprio corpo. Si rese ben presto conto che sostenere un viaggio tale in paesi con strutture sanitarie non all’avanguardia, anzi del tutto precarie, non era praticabile.

Quindi non si poteva fare più nulla una volta diventati “vecchi”?

Fu proprio Eugenio a trovare la risposta alla sua domanda. Doveva trovare un sistema per andare in Africa.

Se lo ripeté un numero così alto di volte da non riuscire più a contarle, e alla fine, la risposta arrivò da una delle “cose” considerate più effimere dalla società dei consumi. Un bene, che non potendosi acquistare, non sembrava aver valore: la preghiera.

Iniziò a pregare ardentemente per l’Africa e si rese conto che ci si recava ogni volta che pensava profondamente ai luoghi, alle persone, ai progetti, alla speranza, senza farsi schiacciare dai limiti della precarietà del proprio corpo.

La risposta l’aveva trovata: un uomo può rinascere se sogna e se prega.

Forse per molti, soprattutto giovani, potrebbe sembrare una scusa, una sublimazione, un comodo ripiego, in pratica la stilizzazione di un uomo per sentirsi ancora utile. Il mondo globalizzato non ammette debolezze: o sei giovane e forte o sei fuori. Eugenio, con la sua vita lunga ha dimostrato l’esatto contrario. Quando si è più deboli si può dimostrare con persuasione di essere rilevanti per il mondo e per il prossimo.

Eugenio, tre giorni alla settimana, nonostante l’età, trovava il modo di recarsi a Trastevere, per supportare il programma DREAM attraverso le sue competenze amministrative, aiutando anche il programma delle adozioni a distanza e, fino all’ultimo, non ha mai smesso di pregare per la sua amata Africa. Negli ultimi anni, quelli più deboli e difficili, ha dimostrato come si può provare a cambiare il mondo con l’impegno personale, anche all’età del meritato il riposo.

Un eroe?

Probabilmente no.

Almeno non un eroe convenzionale, visto che lui, come amava raccontare, non era stato arruolato per la seconda guerra mondiale, a causa di un intervento andato male quando era bambino, intervento che gli aveva lesionato i tendini della mano destra e che, suo “malgrado” e con ‘sommo dispiacere’, non gli aveva permesso di fare il saluto fascista.

Benedetto quell’intervento, che mi ha permesso di non andare in guerra”, ironizzava spesso.

Non era un eroe, ma solo un uomo che non aveva mai smesso di sognare. E, grazie a questa dote aveva dimostrato a tutti come si può nascere due volte.

Il lungo viaggio di Zelda Milk

Zelda Milk era una orfana afgana, che aveva vissuto per molto tempo in prossimità di una base militare americana, in uno dei territori demilitarizzati vicino a Nava.

Il suo nome non era afgano e, in effetti, non era neanche un vero nome. Rimasta orfana da piccola, Zelda era stata “adottata” dal personale militare di un campo profughi. L’ufficiale di turno l’aveva battezzata “Zelda”. Perché avesse scelto un nome così insolito non fu mai chiaro a nessuno. Era opinione di tutti che una bambina orfana non avesse molta speranza di vita da quelle parti e che non valesse la pena di “sprecare” per lei un nome serio.

La bambina non morì, crebbe, e anche bene. Con lo sviluppo divenne una bella ragazza dalle forme generose, così un gruppo di soldati americani, non si sa se più idioti o più annoiati, decise di “donare” il simpatico appellativo di “Milk” alla ragazza, in onore del suo seno.

Vivere in un campo profughi non era facile per nessuno, figurarsi per una giovane dalle forme procaci, che tutti chiamavano Zelda Milk. Dovette crescere in fretta, per non essere schiacciata dalla dura vita da rifugiata. A soli diciassette anni lottò per non finire sposa a un uomo di quarantacinque anni, che aveva deciso di “acquistarla” dalla persona che se ne prendeva “cura”. Per fortuna, almeno in quell’occasione, gli Americani servirono a qualcosa e il signore di mezza età dovette ritirare la “generosa” offerta, con non poco disappunto del tutore di Zelda.

La ragazza crebbe nella miseria più nera. Nonostante le mille difficoltà, conservò dall’anima gentile e molto materna. Aveva capito che per rimarginare le proprie ferite non c’era miglior rimedio che occuparsi degli altri, soprattutto se bambini. Come olio profumato su ferite brucianti, vedere un bambino sorridere gli donava un profondo sollievo. Per questo decise di prendersi cura di molti bambini, riuscendo a farsi affidare una tenda dagli americani, dove accoglieva gli orfani come lei. Da quel momento la sua tenda fu nota a tutti come ‘l’orfanotrofio di Zelda Milk’.

Un giorno, per motivi ignoti, gli Americani decisero di ritirarsi dall’Afghanistan. In fretta e furia abbandonarono tutto e tutti, lasciando gli abitanti del campo – profughi basiti.

In poche ore il caos piombò sul campo come un rapace su una preda. I più forti, senza più guardiani, iniziarono ad abusare dei più deboli, specialmente se si trattava di donne o bambini. Tutto questo durò finché non arrivarono i Talebani a riportare il loro “ordine”. In tanti acclamarono entusiasti i turbanti bianchi, sia perché erano paesani, sia perché si capivano meglio grazie alla cultura più vicina. Così i talebani imposero il loro regime senza troppe difficoltà.

L’inziale euforia per l’arrivo dei liberatori, presto venne rimpiazzata dalla disperazione per una sorte ancora peggiore.

Gli Americani non erano perfetti, ma in confronto alla brutalità dei Talebani, che di bianco avevano solo il turbante, sembravano angeli consolatori.

Zelda di religione non aveva mai saputo molto. Il fatto di essere donna e, per di più, orfana, non gli aveva permesso di essere edotta in questa disciplina. Ma era molto intelligente e scaltra, e aveva fatto amicizia con un vecchio Imam, anche lui profugo in quel campo, da cui aveva iniziato ad apprendere almeno le basi della loro fede, per evitare guai con la giustizia o, peggio ancora, accuse di blasfemia.

Per questo quando i Talebani iniziarono a proclamare la loro visione di una legge religiosa fatta solo di violenza, soprusi e prevaricazioni, Zelda rimase allibita.

Aveva appreso dal povero Imam una religione differente, più incentrata sull’amore e sul perdono, che sulla violenza e la dominazione.

Dopo aver fatto fuori i primi oppositori, i Talebani iniziarono a prendersela con le donne, imponendo loro una serie di divieti, obblighi e doveri, che resero la vita di Zelda difficile, se non impossibile, poi con le minoranze presenti nel campo. Iniziarono a deportare tutti i giovani Azara che venivano usati come schiavi.

La situazione era divenuta insostenibile. Ogni giorno i Talebani si recavano alla sua tenda per esigere il loro schiavo Azara quotidiano, senza che potesse protestare: essendo donna, sarebbe bastata solo una parola fuori luogo o una lacrima di troppo per venire lapidata come blasfema.

Zelda Milk decise di fuggire dalla sua terra e iniziare uno di quei così detti “viaggi della speranza”, insieme a tutti i suoi bambini.

Probabilmente si sarebbero feriti durante il viaggio, anzi sicuramente sarebbero morti tutti, ma almeno sarebbero morti liberi, lottando per un futuro migliore.

Zelda radunò tutti i 36 bambini rimasti, divise il minimo indispensabile per il viaggio in piccole bisacce e, sotto la luce delle stelle, partì dal campo profughi. Per fortuna gli Americani partendo di corsa avevano abbandonato molta attrezzatura da campo, così la giovane donna prese tutto quello che reputò di valore e lo vendette al mercato nero. Il fatto che fosse donna non gli permise di guadagnare tanto, ma riuscì comunque a racimolare i soldi necessari per iniziare il viaggio.

Non era facile spostarsi con tutti quei bambini, soprattutto perché molti erano Azara. Per fortuna un bambino cresciuto in un campo-profughi è più maturo e responsabile di un adulto occidentale, e questo permise loro di partire senza troppi problemi.

Il viaggio durò circa tre anni e fu molto difficile. Dei 36 bambini che partirono quella notte da Nava solo 11 arrivarono a destinazione, gli altri si “persero” semplicemente lungo il viaggio.

Da Nava arrivarono a Kandahar, dove si unirono, dietro lauto pagamento, a una carovana della speranza, che doveva passare il confine con il Pakistan ed arrivare a Quetta. Lungo il tragitto dovettero affrontare il primo grande ostacolo, che Zelda non aveva previsto, per il semplice motivo che non ne conosceva l’esistenza: il freddo glaciale!

Le montagne che costeggiavano il confine dei due paesi erano alte ed impervie, e nessuno di loro era equipaggiato per affrontare quel clima così ostile. L’unica cosa che permise a Zelda e ai bambini di non morire tutti sulle montagne fu il suo acuto senso dell’osservazione. Una bambina nata e vissuta in un campo profughi doveva imparare presto a interpretare ogni minimo segnale di pericolo, onde evitare di fare una brutta fine.

Grazie a quella intuizione morirono congelati “solo” sei dei suoi bambini. Una sorte peggiore toccò a molti degli altri componenti della carovana, che non avendo avuto lo stesso senso d’osservazione di Zelda, affrontarono la montagna in maglietta, pantaloni di tela e sandali, al posto delle scarpe.

Dal Pakistan, dopo una breve sosta di qualche giorno, si partì alla volta dell’Iran: una “dittatura” stabile poteva offrire opportunità di lavoro a giovani volenterosi. Per questo molti dei sopravvissuti alle montagne si fermarono lì, alla ricerca di lavori occasionali, tramite i quali far arrivare soldi alle loro famiglie. Il gruppo di Zelda procedette molto lentamente e si fermò per più di un anno e mezzo fra le città di Kerman, Esfahan, Qom, Teheran, Tabriz e Salmas. Avrebbe voluto fermarsi in Iran, ma il fatto di essere una ragazza, non troppo addentro alla religione musulmana, con dei bambini di varie minoranze etniche al seguito, creò tanti di quei problemi, che fu costretta a riprendere il viaggio, verso la Turchia.

Purtroppo però La Turchia, però, non era un paese ospitale con i clandestini e i carovanieri vollero un indennizzo maggiore per portarli su vie “sicure” al di là del confine.

In quell’anno e mezzo, nonostante Zelda e i suoi bambini, che tanto bambini non erano più, avessero lavorato tanto, non erano riusciti a racimolare i soldi sufficienti per intraprendere quel maledetto viaggio. I soldi servivano anche per sopravvivere, oltre che per viaggiare e Zelda dovette prendere una tragica decisione, che spezzò il suo giovane cuore.

L’unico modo per racimolare i soldi necessari per passare il confine, consisteva nel vendere  la cosa più preziosa che possedeva.

Si dicono tante cose sulla prima volta che si inizia quel “mestiere”, ma nessuna penna e nessun psicologo potrà mai descrivere o spiegare veramente bene il dramma di una donna, che realizza di colpo, che è irrimediabilmente “sporca”.

Zelda riuscì a risparmiare i soldi necessari alla traversata. Ma purtroppo in quella notte a partire oltre con lei furono solo 20 bambini. In quell’anno e mezzo di permanenza in Iran, alcuni dei suoi bambini o avevano trovato altri gruppi con cui stare, o erano stati rapiti. Un bambino purtroppo, può divenire utile a cose: si può venderlo, farlo lavorare, farne ricambio per organi, e tante altre vicende innominabili.

Iniziò così questo nuovo viaggio, che non fu più facile del primo, ma che doveva portare in Turchia, una terra, più civile. Di civile, in realtà, la Turchia non aveva nulla, almeno non per gente come loro. Appena arrivati a Van, infatti, il drappello di disperati fu abbandonato dai carovanieri, che vedendo le jeep della polizia arrivare, si diedero alla fuga. Furono accerchiati, come in uno dei vecchi film che i soldati americani amavano vedere nel suo vecchio campo profughi. Tutti si diedero alla fuga, in formazione sparsa. Zelda cercò, invano, di rimanere unita ai suoi bambini, ma purtroppo anche in quella occasione ne perse cinque. 

Zelda le lacrime le aveva perse nei pressi di Qom, in Iran, per cui non né versò neanche una, ma come le altre volte, si limitò a radunare i 15 bambini che gli erano rimasti, per dirigersi verso Ankara. Passò alcuni mesi in clandestinità, sempre con la paura di essere arrestata. e apprese che solo in Europa vi erano speranze per gente come lei, con un passato da dimenticare e senza futuro. l’Europa era la terra promessa, dove tutti si volevano bene, dove si viveva in pace, dove il tenore di vita era alto e ci si aiutava a vicenda. E tra tutti i paesi d’Europa, c’era il Bel Paese, di cui anche gli Americani parlavano molto bene.

Zelda prese una decisione importante: avrebbe portato i suoi bambini in Italia!

Iniziò un nuovo periodo, di privazioni e umiliazioni, nell’intento di racimolare i soldi necessari per portare in Italia i suoi bambini. Anche stavolta passarono più di un anno, fra Ankara e Ayvalik, nella speranza di non essere arrestati, mentre lavoravano per mettere da parte i soldi.

La partenza era prevista dalla città di Avalik, verso Militene. La barca, se si poteva chiamare cosi, non era in grado di affrontare il mare aperto e, quindi, si sarebbe diretta verso Atene.

Da Atene, a piedi, avrebbero proseguito fino a Pilos, dove si sarebbero imbarcati, forse in uno scafo migliore, per tentare la traversata in mare aperto verso le coste siciliane.

Questo era il programma offerto dal “tour operator” di turno. Un bellissimo viaggio nelle radici della cultura ellenica.

Le cose ovviamente non andarono per il verso giusto fin dall’inizio. I carovanieri avevano caricato più gente di quella che la “zattera” poteva sopportare e, durante il viaggio, buttarono in mare alcuni passeggeri. Per loro si trattava di normale amministrazione, per cui nessuno si lamentò, intuendo che avrebbero potuto fare la stessa fine.

Finalmente arrivarono ad Atene, o meglio nei pressi del porto del Pireo, visto che se la Turchia non era tenera con i clandestini, la Grecia lo era ancor di meno. Infatti, i carovanieri si preoccuparono di mettere in guardia i passeggeri, da una organizzazione, nata da poco, che si faceva chiamare “Alba dorata”, particolarmente dura con gli stranieri in generale e con i clandestini in particolare. Questa raccomandazione, data più per evitare guai, che per autentico interessamento, salvò la vita a Zelda e ai suoi bambini, quando, una notte, incrociarono una ronda di “pulizia”, che uccise di botte uno del loro gruppo, che era stato meno attento degli altri.

Per fortuna il soggiorno nei pressi d’Atene durò poco e, dopo un paio di giorni, la carovana riprese il viaggio a piedi verso Pilos.

Zelda, ormai, aveva perso la cognizione sia del tempo, che dei kilometri percorsi. I piedi le si erano deformati, per i lungi viaggi in zone impervie, e, soprattutto, si era deformata il suo animo.

Bruciato dal dolore e schiacciato dalla fatica, era diventato irriconoscibile. Era il pedaggio che si doveva pagare per la libertà… o, forse, quello che lei si era imposta di credere.

La sera il mare era molto calmo e tutti salirono, in silenzio, sulla barca, per lasciare le coste della Grecia. Il viaggio fu lungo e pericoloso, anche perché i “coccodrilli” non aspettavano altro che qualcuno si sporgesse per azzannarlo.

Grazie al cielo, almeno in quell’occasione, di coccodrilli non se né vide neanche uno: ci furono, però, nemici ben peggiori: la sete, il sole e la fame fecero molte vittime.

E, alla fine, il nemico più spietato, a sorpresa, si rivelò l’uomo. Di recente il governo italiano aveva approvato una legge per impedire altri sbarchi sui suoi territori, il decreto era noto solo ai traghettatori.

La legge in questione, tra l’altro, prevedeva che le navi da guerra italiane dovessero intercettare le zattere cariche di clandestini, per rispedirle al mittente.

Fu così che, arrivata in acque italiane, la piccola imbarcazione fu avvistata prima da un elicottero, poi da un cacciatorpediniere della gloriosa Marina Militare italiana. Gli scafisti abbandonarono la nave su un gommone d’emergenza, lasciando la barca carica di disperati alla deriva. La gente iniziò a urlare e alcuni si gettarono in acqua. Zelda radunò i quindici bambini rimasti, per evitare che venissero calpestati, o peggio, spinti in acqua dalla folla.

Per fortuna all’orizzonte si materializzò un’immensa nave d’acciaio. Lo scafo rappresentava la salvezza. Tutte le persone a bordo iniziarono a inneggiare ai loro salvatori, un clandestino particolarmente zelante, per semplificare le procedure di attracco, pensò di andare al timone, pur non sapendolo usare, per portare la “bagnarola”, fino a quella nave bellissima, che si chiamava “Luigi Durand de la Penne D560”.

Il timonerie in erba sbagliò qualche manovra e la barca, invece di decelerare, aumentò la velocità. Una voce proveniente dall’immensa nave d’acciaio intimò qualcosa in una lingua a loro sconosciuta. I profughi non seppero cosa fare, se non cercare di far rallentare la maledetta bagnarola. La voce, la seconda volta si espresse anche in inglese, ma furono pochi a capirla, fra i ‘pochi’ Zelda, che impallidì.

“FERMAAAAAAA!” Fu quello che riuscì ad urlare, anche se nessuno, fra il rumore del mare e delle urla, la sentì.

La voce diceva: “Siamo della Marina Militare Italiana Fermate immediatamente l’imbarcazione e ritornate indietro, altrimenti saremmo costretti ad aprire il fuoco, perché state forzando i confini italiani!”

Fedele alle promesse, la grande nave italiana dal nome così altisonante, visto che nessuno capiva cosa intimasse, aprì il fuoco.

L’ultima cosa che Zelda vide fu un muro altissimo d’acqua, che si alzò sulle loro teste, gli ultimi rumori furono un rumore assordante e i suoi bambini che piangevano…

Ripescarono vivi undici dei quindici bambini che erano con lei. Degli altri, Zelda compresa, non si ritrovarono neanche i corpi.

Il viaggio della giovane coraggiosa donna si interruppe ad un passo dalla meta…

All’ombra delle rovine

“È follia!”

“Che altro possiamo fare? Abbandonarci alla sorte? Rinunciare a tutto?”

La discussione fra i due preti si stava animando sempre di più nell’angolo della chiesa, tra bisbigli e piccoli sbotti di umore.

“Scappa da quest’inferno in terra! Vai lontano, tanto qui non c’è niente da perdere. In Canada hai dei parenti, una famiglia numerosa e ben avviata, vero? Vai a stare da loro, qui non si può resistere. La situazione si è fatta pericolosa…”

“Fuggire da Aleppo? Lasciare i miei fratelli e i miei compagni in guerra e starmene comodamente seduto sulla poltrona di mia cognata, a seguire il dramma sulla televisione satellitare a migliaia di chilometri di distanza? Come mi può chiedere questo, Monsignore?”

“Lo so bene, ma rifletti: la nostra comunità in Siria è agli estremi. Pensa a quel villaggio dove rimangono solo poveri vecchi indifesi, senza un prete, dopo che tutti i giovani e le famiglie sono fuggite, di notte, verso il confine. Chi poteva si è messo in salvo con la fuga in Turchia, sono pochi chilometri di sentieri in montagna. Dopo gli ultimi attacchi è da folli rimanere a proteggere le nostre Chiese, quando gli stessi fedeli sono facili bersagli. Se la guerra continuerà, come temo, non rimarranno molti Armeni in Siria. Per questo devi andare via. Una volta finita questa maledetta guerra, tu e gli altri del tuo livello, tornerete, per ricostruire la nostra comunità. Lascia che siano i vecchi come me a sacrificarsi. Tu sei giovane, hai solo ventisette anni, un futuro tutto da vivere… e, soprattutto, sei indispensabile per il tuo popolo! Hai studiato a Roma, sei prezioso per noi, non puoi permetterti alcun errore”.

La franchezza e la logica del ragionamento fecero trasalire il giovane prete armeno. Uno dei pochi privilegiati, che con qualche sforzo e molto aiuto, aveva potuto formarsi a Roma. L’anziano Monsignore non aveva torto: rappresentava un prete indispensabile proprio perché aveva studiato nel cuore della Chiesa. Quell’aura di cultura e distinzione gli avevano concesso l’iscrizione onoraria all’élite del clero del suo paese. Nella Città eterna non si arriva per caso. A Roma non c’erano solo le migliori Università Pontificie, ma uno spirito di universalità, che travolgeva, e cambiava i punti di vista. Non si poteva rimanere uguali a se stessi una volta arrivati a Roma. Non si trattava solo del fatto di superare il provincialismo e di vivere in una società non più a maggioranza islamica. A Roma si studiava accanto a seminaristi provenienti da ogni parte del mondo. Si imparava a conoscere e rispettare culture e popoli con i quali, difficilmente, un giovane Armeno siriano sarebbe mai venuto a contatto. Il giovane prete aveva incrociato, in maniera fortunosa, o forse provvidenziale, una comunità di giovani laici, nota come Comunità di Sant’Egidio, con cui aveva stretto amicizia, quando, per la sua formazione, aveva svolto servizio in una mensa per i poveri a via Dandolo. Quella gente, che all’inizio gli era parsa un po’ strana, gli aveva insegnato come i poveri fossero decisivi per la sua vita spirituale. In quei volti iniziava a riconoscere l’immagine di Gesù; aveva trovato nuovi maestri di fede e d’amore.

“Mi stai ascoltando?”

Il brusco richiamo riportò il giovane alla realtà. Se a Roma aveva vissuto anni felici di formazione, ora si trovava nella desolazione. L’inferno, il baratro della guerra.

“Certo. L’ascolto con riverenza!”

Prese ancora qualche secondo, per riordinare le idee, e rispondere al suo superiore.

“Capisco perfettamente il suo proposito e condivido la sua ragionevolezza… La ringrazio con tutto il cuore per la premura verso di me e verso il nostro popolo. Ma proprio perché ho studiato a Roma non mi posso tirare indietro. Mi sono formato nella culla della fede e, anche per questo motivo non posso lasciare in balia degli eventi i miei fratelli. Ai nostri poveri Armeni di Siria non rimane più nulla, se non la celebrazione della Divina Liturgia. Non posso negare questa consolazione ai poveri vecchi, che rischiando la vita, difendono le nostre Chiese. Il dovere pastorale me lo impone. Aspettano Gesù, l’unico consolatore, l’unico che possa lenire ferite e paure. Lei, stimato Padre, vede nei loro occhi quell’attesa di riscatto, sente nelle loro invocazioni l’ansia di salvezza. Qualcosa si è rotto, irrimediabilmente, nella nostra amata terra, ma noi dobbiamo conservare la speranza e il coraggio. L’ascesa verso il Regno richiede pazienza e generosità, come tutti voi, miei maestri, mi avete insegnato. Per questi motivi non posso rifiutarmi di andare da loro a celebrare la Santa Messa. Già una volta il nostro popolo ha rischiato lo sterminio nel Metz Yeghern e, solo grazie alla fede e all’aiuto di Dio, siamo risorti. Noi costituiamo una comunità di sopravvissuti, l’ho appreso da bambino, in Siria, e in gioventù, a Roma. Non posso sottrarmi al debito del mio ministero”.

L’Arciprete lo fissava impietrito.

Il giovane raccolse ancora un po’ di coraggio e concluse: “Sono un prete Armeno cattolico, responsabile della salvezza delle anime; andrò a Kessab a celebrare l’Eucarestia, costi quel che costi!”

Una scintilla di ammirazione brillò negli occhi stanchi del prelato. Non era disinteressato alla sorte dei poveri cristiani in Siria; al contrario, era stimato e ben voluto da tutti e il suo servizio era impeccabile. Dopo una vita intera passata nella paura, però, quella guerra fratricida aveva definitivamente distrutto il suo senso di eroismo cristiano.

Gli Armeni vivevano da secoli in Siria e avevano condiviso con i compatrioti Siriani di ogni etnia e confessione tutte le stagioni, facili e difficili della storia di quella terra. La loro cultura era intessuta della civiltà siriana. Sebbene fossero una minoranza cristiana, in un paese musulmano, nel corso dei secoli, con il sistema dei Millet – la divisione e la parziale autonomia delle etnie sulla base dell’obbedienza religiosa -, gli Armeni avevano ottenuto protezione e privilegi, durante i vari califfati Ottomani. La benevolenza era stata conquistata per i buoni servigi resi e grazie alla grande abilità di mercanti tessili e orafi, mestieri tenuti in grande considerazione nell’Impero Ottomano.

Prima della guerra civile in Siria si contavano 190.000 Armeni fra apostolici, di confessione ortodossa, cattolici e protestanti, sparsi tra Aleppo, Damasco, Deir ez Zor, Hasake, Latakiyah, Qamishli e Kessab. In virtù del loro numero, dato che la costituzione siriana prevedeva una rappresentanza parlamentare di ogni minoranza, gli armeni erano riusciti ad avere ben due parlamentari, una cifra non trascurabile, vista la composizione variegata delle minoranze etniche presenti in Siria. Da anni le cose stavano peggiorando, dalla fine degli anni ‘70 la loro rappresentanza fu dimezzata, e diritti e privilegi si andarono assottigliando. La dittatura degli Assad, provenienti da una minoranza religiosa musulmana, – gli Alaziti -, paradossalmente aveva garantito una certa libertà di culto. Ogni dittatura che si rispetti mira ad avere meno dissidenti e agitatori interni possibili; inoltre molti Armeni erano colti e ricchi, e formavano una classe sociale di tutto rispetto. Si era imposto una sorta di equilibrio, che alla fine, era destinato a sgretolarsi tragicamente. Uno dei paesi più belli e antichi del mondo, che conservava le tracce della civiltà mediterranea e cristiana, era in fiamme. Il fuoco stava divorando ogni cosa, lasciando solo cenere fumante.

“Che Dio ti protegga, figlio mio!” Bisbigliò l’Arciprete, con le lacrime agli occhi. “Se non posso impedirti di andare, almeno pregherò per te!”

“Grazie”. Il giovane prete si congedò sobriamente dal suo superiore.

Per il resto del pomeriggio rimase a preparare le valigie. Si sarebbe dovuto fermare nella piccola cittadina di Kessab almeno due notti, perché la lontananza e la scarsa agibilità delle strade in quel periodo, dilatava i tempi di percorrenza. In verità aveva un carattere tutt’altro che coraggioso, avvertiva la paura come una bestia oscura, che gli ansimava sul collo. Solo la fede, incrollabile, gli aveva permesso di formulare la richiesta suicida.

“Non riuscirò mai a salvarmi!” Esclamò, buttando tutto all’aria. “Perché ho accettato l’incarico qui in Siria? Non potevo cercarmi un ufficio a Roma, o una prospera sede della diaspora da amministrare comodamente? Mi sono condannato a morte certa…”

Si accasciò a terra. Lo sguardo vagò nella stanza senza una meta. Fotografie, libri, mobili, i pochi oggetti che possedeva: nulla aveva più senso. I paramenti che custodiva con fierezza e amore, dono della sua famiglia, gli sembravano altrettanto inutili. Giacevano inerti nella valigia e sembravano, con il loro splendore e il loro pregio, irridere il suo dramma. Si ritrovava impaurito, a terra, a piangere come un bambino. Voleva scappare, andare lontano e non tornare mai più. Non voleva essere un eroe, tantomeno un martire dello scontro fratricida. Voleva solo onorare “onestamente” il ministero presbiterale. Si era trovato in un frangente disperato e desiderava uscirne il prima possibile.

Nella prostrazione lo sguardo si posò su una foto scattata a Roma. Un panorama della Basilica di San Pietro, vista dal Gianicolo. Insieme a lui c’era il confratello con cui aveva condiviso gli studi a Roma, che era ritornato con lui in Siria per diventare prete, e quel suo amico della Comunità di Sant’Egidio, con il quale aveva trascorso i momenti più belli del soggiorno romano. Gli tornò in mente l’antico insegnamento di un rabbino, che a Roma, aveva sentito ripetere più volte: “se non ci sono più uomini attorno a te, sforzati di essere un uomo!” In quel momento non servivano politici spregiudicati, eroi di guerra, reparti speciali o intelligence a risolvere il dramma della Siria. Erano necessari, semplicemente, uomini che si prendessero le loro responsabilità. Non ci si poteva accontentare di svolgere il proprio ministero, seppure in maniera onesta; bisognava lavorare per riportare il paese alla convivenza di un tempo. La paura e l’individualismo avrebbero solo fomentato il vento di divisione che aveva portato a tanta sofferenza.

Si calmò e ricomincio a preparare i bagagli. Oltre ai paramenti liturgici, il Messale, e a tutto l’occorrente per la celebrazione eucaristica, mise in valigia anche quella fotografia. Era tutto pronto e, finalmente, poteva partire.

All’alba del mattino seguente scese nel cortile della Chiesa, di cui era vice-parroco. La notte lunga e agitata aveva affaticato l’espressione del suo viso. Dall’ingresso della canonica si fermò e si voltò ad ammirare, ancora una volta, l’edificio imponente e tanto amato, con una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Si riprese e si diresse verso la macchina che avrebbe usato per il viaggio.

Accanto alla vecchia Giulietta 1.6 (in Siria circolano molte vetture italiane di terza mano), trovò l’Arciprete ad aspettarlo.

“Eccoti, finalmente!” Scandì con voce calda e paterna. “Ti stavo aspettando. Volevo salutarti di persona prima della partenza.”

“Grazie, Monsignore, Dio ve ne renda merito! Sono veramente onorato…”, rispose, imbarazzato.

“Sei un buon prete e ti auguro una lunga carriera ad Aleppo. Hai studiato a Roma e hai un buon cuore: due requisiti fondamentali, come sai bene”.

Lo strinse in un lungo abbraccio.

“Addio!” Sussurrò, con un nodo in gola.

Il giovane sistemò il bagaglio ed entrò in macchina. Guardò ancora una volta l’anziano prelato e la sua Chiesa. Accennò un sorriso e, premendo sull’acceleratore, uscì dal cortile della canonica. Nella mente e sulle labbra le parole che dall’infanzia avevano accompagnato i momenti più difficili, secondo l’insegnamento della nonna: Hayr mer, Padre nostro…

Le strade della città erano disastrate. Sui muri dei palazzi si vedevano i fori dei proiettili. Alcuni edifici erano crollati per i colpi di granate. La pochissima gente, per strada, correva all’impazzata, rifugiandosi in tutti gli angoli coperti. Si usciva di casa solo se si aveva qualche cosa di indispensabile da fare: in strada fra cecchini, attentatori ribelli e polizia il rischio era altissimo. Gli occhi della gente erano spenti e pieni di paura. Il prete attraversò luoghi che un tempo erano stati pieni di folla, il mercato, una moschea molto popolare, un liceo. Ora si scorgevano solo macerie.

Dopo poca strada e molte rovine arrivò alla periferia di Aleppo. Per essere la fine di aprile il caldo, amplificato dalla polvere e dall’angoscia, era già intollerabile. Girato l’ultimo cantone trovò la strada bloccata dalla polizia. Un denso fumo nero si stagliava maligno dietro l’isolato, recintato dalle guardie. Urla, pianti e sirene d’ambulanza risuonavano nell’aria, satura di odore di sangue e polvere da sparo.

Un agente di polizia, dallo sguardo affranto, deviò la macchina verso una strada secondaria. Il presbitero, con gli occhi gonfi di lacrime, assecondò la deviazione. Anche se ormai gli attentati erano all’ordine del giorno, il giovane non si era abituato a quell’orrore. Dopo molti giri tortuosi fra strade interrotte e case distrutte, riuscì ad arrivare nei pressi di Al–Assad Wood, dove avrebbe imboccato la strada per Kessab.

***

L’Arciprete era inquieto. Da quando si era svegliato aveva una sensazione d’ansia, che non riusciva a spiegare. Non solo il vice-parroco non era ancora ritornato da Kessab, ma non aveva nemmeno dato notizie del villaggio, della comunità e della Chiesa, in cui aveva officiato. Era così agitato, che, a stento, riuscì a terminare l’Ufficio delle Lodi. Si trovava nella piccola cucina della canonica per prepararsi una tisana distensiva, nella vana speranza di poter placare l’angoscia, quando il telefono squillò.

“Pronto? Sono il parroco di Surp Yerrortutyun, con chi parlo?”

“Cane infedele, sappiamo bene chi sei! Onore alle forze di liberazione armata della Siria! Dio è con noi! Fino a quando con il favore divino non avremo instaurato il nostro Emirato in Siria, il vostro prete rimarrà nostro ostaggio…” Gracchiò una voce carica di odio.

L’Arciprete, in preda ad un malore, lasciò cadere la cornetta del telefono a terra, senza seguire il resto della delirante conversazione…

Irriverenza – Storia di Jeppy

De Nicola Giuseppe, classe 1970, per tutti Jeppy ha occhi verdi, naso bitorzoluto, fisico aitante, capelli lunghi, fin troppo brizzolati, dentatura irregolare, un sorriso sbilenco, bizzarro e magnetico. Un tipo allegro e strafottente, forse anche troppo allegro, spesso irriverente uno di quei romani a cui piace avere sempre l’ultima parola. Il rappresentante di un genere che non sarà mai in via di estinzione, che ti deve convincere, a tutti i costi, che il Colosseo è quadrato, con una spacconeria che, alla fine, può risultare vincente.

“In vita mia me so’ sempre fermato cinque minuti prima de inzià a sudà.”

Un po’ gaglioffo, un po’ fifone, mezzo ispirato alle macchiette di Alberto Sordi, greve quanto basta, amatore impenitente (più nelle storielle vantate con gli amici che nelle storie vere), e capace di moti di generosità, che tiene ben nascosti, per non rovinarsi la reputazione. 

“Nun c’ho mai avuto paura de gnente”.

Evita di scontrarsi con i forti, si reca nei posti giusti per incrociare la gente che conta e far finta di vivere al centro di un orbita in cui brilla, come satellite, di luce riflessa. Incurante delle umane considerazioni, ha l’aria sciatta, per fingersi un pò filosofo, nasconde una sana dose di cinismo ed evita di baciare le mani perfino alle belle donne, figurarsi ai Monsignori.

“Nun me so’ mai inchinato davanti a nisuno ‘n vita mia!”

Spavaldo, anche se ha una foto in tinello, che lo potrebbe smentire. A otto anni era un bambino rasato e paffutello, vestito da fratino, in ginocchio davanti al tabernacolo. Ma si trattava del giorno della Prima Comunione a San Giovanni e il bel mondo non era entrato di certo a curiosare nella sua vita, quella dell’appartamento a Centocelle, due camere e cucina, dove abita tuttora, e cerca di farsi vedere il meno possibile, vista la sentenza di sfratto esecutivo per morosità.

Jeppy sbarca il lunario: con molta faccia tosta e grazie alla benevolenza di alcuni cuori teneri. Da molti anni, a causa dello sfratto, vive in perenne movimento per le strade di Roma. Ovviamente ama ripetere che la scelta è stata sua.

‘Na casa è ‘na miseria, a mme, solo Roma mia me po’ bastà pe’ stacce largo.”

La strada è diventata la sua casa come per molti prima di lui, per una serie di ragioni avverse: un matrimonio fallito fin dall’inizio, con una donna che non l’aveva mai capito; la crisi, che l’ha lasciato senza lavoro e tante altre piccole vicissitudini.

Per il carattere così esuberante si è subito fatto conoscere, diventando un punto di riferimento per molti come lui. Agli occhi dei benpensanti rimane uno sbandato e un randagio. Sopravvive con piccoli espedienti: l’elemosina; le mense popolari gratuite; la collezione di tessere della Caritas, del Circolo San Pietro; le case di accoglienza, le Parrocchie e gli infiniti altri centri benefici, di cui Roma, per fortuna, non difetta. In un libretto segna i giorni e le ore di tutti i centri di accoglienza. Grazie all’indole allegra e irriverente. Risulta molto abile a rimediare qualche spicciolo e un pasto caldo. E spesso divide con gli altri quello che riesce a racimolare, senza darlo a vedere, per fingersi un burbero.

“Se va avanti uno a ‘sto mondaccio boja, annamo avanti tutti” E’ il suo modo per affermare che l’unica arma vincente rimane sempre la solidarietà.

Una mattina, come tante, Jeppy si trova accucciato in una traversa di Via del Corso a chiedere l’elemosina. Un viale centrale ricco, pieno frequentato da turisti facoltosi, che spesso lasciano laute mance. Senza apparente interesse, un po’ sonnecchiando, un po’intonando uno stornello di Alvaro Amici, rimane all’imbocco della grande via. Di gente ne passa molta, ma non tutti sono adatti; aspetta la preda migliore. Da esperto felino della savana urbana si é messo a scrutare ogni singolo passante. Il tempo passa lento nel caldo pomeriggio di primavera.

“Tanta ggente, ma nun se fa robba pe’ gnente …”

Quand’ecco apparire all’orizzonte la preda perfetta!

Una donna sulla cinquantina, florida per non dire giunonica, abbigliata con abiti griffati; ingioiellata da far ribrezzo; con una stola di visone anni ‘50 da far immolare, seduta stante, uno stuolo di animalisti e un paio di occhiali intonati al resto della tragica mise. Insomma: se il ricco epulone avesse avuto una sorella, sarebbero stati gemelli…

Il gattone abbozza un sorrisetto sardonico: con una del genere ci sarà da divertirsi.

Senza darlo a vedere attende al varco la riccona. Appena la ha a tiro, con un’espressione maliarda esclama: “A bella dama, nun è che c’avrebbe du’ spicci pe’ ‘sto poraccio?”

La “bella” dama rimane impietrita da quella richiesta diretta, così inopportuna e volgare.

“Ma come si permette di chiedere dei soldi? Non si vergogna? Vada a lavorare invece di importunare la gente onesta come me, che si guadagna il pane col sudore della fronte!” Bela, acida, la matrona stizzita.

Assuefatto ai numerosi dinieghi della “gente perbene”, carica di sacchetti dello shopping, Jeppy ha in repertorio svariate risposte per quei ‘cortesi’ dinieghi. Ma quella risposta, così carica di pregiudizio   lo disorienta per un attimo. Un “no” si accetta, ma un disprezzo così palese è intollerabile. Opulenta com’é, la signora cosa ne può sapere di come si finisce per strada! La condanna ferisce più di un pugno.

“Ma come te permetti de schifamme?”

“A signò, ma che cazzo me stai ‘a di’?”

La matrona teme il peggio e, terrorizzata, volta le spalle al mendicante.

Jeppy capisce di aver esagerato. E’ stata cattiva, ma questo non giustifica una reazione cafona e arrogante peggiore della sua.

“No signò, me scusi tanto, ma forse non ha capito come stanno le cose…” cerca di recuperare.

La megera mantiene il suo piglio ed esclama: “Ah, no? E quale sarebbe il punto, di grazia? Me lo vorrebbe spiegare?” La voce torna acida e tagliente.

“Vede, signò, er punto sarebbe che dovrebbe ringrazia’ ‘li poracci come noi!”

“E perché la dovrei ringraziare?”

“Signò, lei se po’ gode i sordi sua sudati, – per essere più credibile si passa una mano sulla fronte -, perché ce stamo noi a falle capì come so’ importanti. Penzi ‘n po’a un mondo addove tutti so’ impaccati de sordi… sai che noia! Poi a lei chi je lo spiegava quant’è bello esse ricchi… Nun so se me so’ spiegato, signora mia bella!”

“Sinceramente non la seguo” E’ la timida obiezione.

“Annamo bene”, sibila, simulando frustrazione, con un sorriso sornione. “Noantri ce stamo pe favve capì come sete fortunati. Si eravamo tutti uguali, nun ce se capirebbe più ‘n emerita mazza!”

“Quindi? Cosa dovrei fare per ripagare questo suo indicibile sforzo dialettico?” Ribatte la riccastra, in tono provocatorio.

“Gnente de più e poco de meno che damme du’ spicci, Madama Doré!”

“Alla fine vede che cerca solo vile denaro! Si dovrebbe vergognare della sua grettezza!”

“Certo signò, me ce vergono ogni giorno… ma lei?”

“Io? Perché mi dovrei vergognare? Non faccio mica la pezzente e non infastidisco di certo i passanti!”

“Mica pe’ er fatto de’ du’ spicci sputati. Eh, ched’è, sta’ avvelenata de’ sordi! Ce giudica a noi morti de fame… Facci puro come je pare, ma nun po’ fa mica ‘a padrona co’ la vita dell’artri. Mica ce lo sai perché sto qui a magnà la porvere pe’ abbuscamme tre lire da ‘na una come te! Pe’ ogni riccona che s’engrassa s’affameno dieci poracci in cerca de carità!”

La signora rimane stupita, per la prima volta inizia a capire chi sono veramente i barboni così fastidiosi, che degradano le vetrine centrali della capitale del Bel Paese.

“A signò, nun se preoccupi, vadi pure ‘ndo deve annà, nun li vojjo li sordi sua!”

La matrona, senza aggiungere nulla, si gira e prosegue per la sua strada, ma mentre si volta di scatto, un biglietto rosa, per caso, vola nel cappello messo a terra a raccogliere le elemosine.

Jeppy vede la banconota rosa, che si adagia sul fondo del suo berretto sdrucito. Non fa un fiato, solo un largo sorriso alla ricca signora, che di rimando, accenna, complice, anche lei un piccolo sorriso.

Bonissima grazia de ggiustizia divina! Vor di’ che ce sta davero Quarcheduno lassù che me vole bene!

La sera, nello splendido palazzo che affaccia sull’angolo di via del Corso, la riccastra, che mangia sempre sola, (oltre ai soldi non ha altri compagni di vita), non si sente inutile come al solito. Avverte un brio che non provava da tempo. E’ euforica, quasi felice, così piena di energia, che decide di mandare la cuoca e la cameriera a riposare e prepararsi da sola un bel sartù di riso, come faceva la nonna a Natale, quando lei era bambina. Un piatto che, da tempo non cucinava più, perché sembrava aver perso il sapore speciale della festa, anche se la ricetta rimaneva quella gelosamente tramandata in famiglia.

Quella sera, il piatto riesce particolarmente bene, e la ricca signora gusta la cena più buona della sua vita!

Mare Nostrum: l’intervista di Oubliette Magazine

Ci siamo occupati di “Mare Nostrum”, pubblicato per le Edizioni Ensemble, un libro forte, che scuote le coscienze e ci interroga sulla nostra umanità, sul sentimento della condivisione, della solidarietà, dell’accoglienza.

“Mare Nostrum” ci porta ad interrogarci su quali strade percorrere per far sì che l’accoglienza e l’inclusione siano i veri baluardi di una politica di integrazione, nella quale poter affermare che “ogni uomo è mio fratello”.

Un libro che oggi vogliamo scoprire di più anche attraverso le dirette parole dell’autore, Diego Romeo, al quale abbiamo rivolto alcune domande.

“Vedere come uno dei battaglioni d’élite della Marina Militare italiana, addestrato per operazioni militari più difficili e pericolose, servisse diligentemente da mangiare pasti caldi ai profughi presenti sulla nave, sotto la guida attenta del loro maresciallo, fu veramente uno spettacolo degno di nota, che mi strappò anche qualche sorriso”. – “Mare Nostrum”

[…]

Intervista di Beatrice Tauro, pubblicata su Oubliette Magazine.