Pane, amore e fantasia

Tutti amiamo realizzare i nostri propositi, specie quando coincidono con grandi ideali. I sogni però, non sono facili da realizzare e, quando coniugano lavoro e disabilità, la cosa sembra al limite dell’utopia…

Tale utopia prese forma nei primi anni Novanta, quando il senso comune sui disabili iniziava a evolvere e ci si interrogava sul valore potenziale di una persona che avesse limiti fisici. Il cambiamento non avvenne dalla sera alla mattina per impulso di un visionario, ma dovette trovare un terreno fertile nel quale svilupparsi.

I disabili venivano definiti handicappati, al massimo portatori di handicap. Si sottolineava il peso del limite, e la condizione irreversibile di disagio. Ma, silenziosamente, molto stava cambiando. Come il vento nasce spesso da una brezza e diventa un tornado, così tale sogno iniziò dall’inquietudine, che si agitava nell’animo di qualche persona.

Nel 1991, già da tempo, Andrea si stava interrogando sul futuro di alcuni disabili suoi amici. Per una persona “normale” il futuro poteva sembrare più o meno lineare. Si finivano gli studi, si cercava un lavoro, ci si sposava e si metteva su famiglia. Una circolarità banale, che sembrava preclusa, a quasi tutti i disabili. Era impossibile spezzare questo taboo: i disabili potevano essere capaci, emancipati, ma dovevano arrendersi al massimo a un livello di assistenza accettabile. Che potessero avere aspirazioni comuni sembrava un lusso, che potessero arrivare a realizzarle, appariva la fuga in avanti di pochi avanguardisti.

Gli “handicappati” adulti erano “condannati” ad una vita di istituti o centri diurni e, per i pochi che finivano gli studi, le cose non erano di certo migliori. L’unica prospettiva sembrava una vita di tirocini ciclici e non retribuiti, senza la minima speranza di normalizzazione lavorativa.

Molti dibattiti si attivavano a favore delle persone disabili e delle loro famiglie; nascevano dalle esigenze quotidiane e concrete, di spazi garantiti dalle leggi e dal buon senso. Ma trovare gli aiuti necessari nelle pieghe della burocrazia, diveniva un ostacolo enorme per molti, che sfiduciati, si abbandonavano al vittimismo e alla rivendicazione arrabbiata. Senza contare chi viveva di proclami ideologici, a debita distanza dal coinvolgimento diretto, con chi i disagi li viveva e i diritti li attendeva come una liberazione.

Favorire l’integrazione nella società accanto agli altri non doveva limitarsi a pochi sporadici attimi di accettazione per i disabili e le famiglie, che iniziavano ad assaporare la vertigine dell’uguaglianza, del superamento del pregiudizio. Non si poteva più tollerare la condanna di giovani adulti bloccati in un limbo.

Sergio, un disabile con una vita semplice, ma con una grande chiarezza sul proprio futuro, era solito ripetere: Se avessi commesso un crimine, adesso ero libero di ricominciare perché avevo scontato la pena… invece a cinquant’anni anni mi trovo ancora a fare tirocini gratuiti alla Regione, nell’attesa e nella speranza di un lavoro che non arriverà mai”.

Questa era la condizione dei più fortunati, che un impiego, anche virtuale, l’avevano; la situazione dei meno intraprendenti poteva definirsi disperata. Di fronte a questo panorama sconfortante, Andrea e altri amici di buona volontà si impegnavano per trovare un lavoro dignitoso alle persone disabili. Le risposte istituzionali erano ancora deboli e farraginose. Micro-progetti, in alcuni casi virtuosi, in altri velleitari, di breve durata. Bisognava trovare una via alternativa, stabile e radicale, alle assunzioni pubbliche, in quote protette, tramite Ufficio di collocamento, imposte per legge. Serviva la classica idea geniale: dignitosa, praticabile e, soprattutto, sostenibile.

Finalmente l’idea arrivò. Un vero uovo di Colombo, semplice e universale, che era sotto gli occhi di tutti, bastava osservare i vicoli di Trastevere.

Aprire un ristorante.

La volontà di fare non mancava: bisognava capire se i disabili volessero prendere parte a un progetto un po’ avventato.

Un pomeriggio Andrea invitò Michele, un suo vecchio amico con disabilità, a una lezione su come preparare tramezzini, panini e l’indispensabile alla buona riuscita di una “Paninoteca”. Michele non capì subito a cosa servisse la spiegazione. Non si sarebbe definito un cultore della cucina elaborata, mangiava solo otto pietanze: pane, pizza bianca, pasta in bianco, parmigiano, fettina ai ferri e poco più… e solo quelle! Ma si divertì molto e chiese di continuare. Andrea colse al volo la richiesta. Alzò all’improvviso la posta in gioco e, come un abile giocatore di poker, azzardò: “Ti andrebbe di aprire un piccolo ristornate, con me e altri amici?”

La domanda non prevedeva un’immediata risposta entusiasta. L’aveva lanciata tanto per introdurre un discorso, in prospettiva. Del resto stava chiedendo un grande impegno ai suoi amici disabili: si doveva costituire una cooperativa di lavoro, occorreva ristrutturare due piccoli ambienti che la vicina parrocchia di S. Maria in Trastevere aveva gentilmente concesso in comodato d’uso. Bisognava muoversi con prudenza, cercando di far metabolizzare bene il progetto a tutti gli interessati. Rimase di sasso quando Michele rispose: “Certo, che problema c’è! Quando iniziamo?”

Il vento del cambiamento aveva cominciato a spirare…

***

Trascorsero circa tre anni da quel giorno, in cui furono sommersi da una montagna di adempimenti burocratici, di ristrutturazioni laboriose, di infinite ricerche di fondi e di corsi di formazione per il personale disabile. Nel 1994 si inaugurò il ristorante “Pane Amore e Fantasia” meglio noto come la Paninoteca. Era tutto pronto, mancava solo un sommelier. A chi affidare un compito così delicato? Il prescelto doveva conoscere a menadito le bevande alcoliche, in tutti i possibili aspetti: vinificazione, etichetta, provenienza, fragranza, abbinamenti, valore di mercato…

La situazione sembrava irrisolvibile, finché si prospettò la candidatura di Michele.

“Michele! Ma tu sei astemio!” Obbiettò Andrea, perplesso e divertito allo stesso tempo.

“E tu fammi un esame”, ribatté l’interessato, con un sorriso truffaldino, che era tutto un programma. Michele, nonostante fosse astemio, riuscì a descrivere esattamente fragranza, aroma, consistenza e soprattutto gli abbinamenti di ogni vino della cantina della Paninoteca.

Un esempio di come una persona disabile possa essere più che qualificata nel lavoro. Da quel giorno la Paninoteca vanta l’unico sommelier astemio a memoria d’uomo, specialità segnalata in più di una guida enogastronomica di rispetto.

Ma che cos’era esattamente questa Paninoteca? All’inizio un piccolo locale a via della Paglia, nel quartiere di Trastevere, dove lavoravano poche persone e solo quattro disabili. Un locale carino, con appena cinque – sei tavolini, dove si potevano servire panini ed insalate. Nulla di veramente cucinato, purtroppo, perché i permessi per la ristorazione erano difficili da ottenere. Il locale era piccolo, ma costituiva uno spettacolo che allargava il cuore: accogliente, arredato con gusto e fantasia, pieno di stampe dell’omonimo e famosissimo film di Vittorio De Sica. In effetti nessun nome poteva essere più appropriato, racchiudeva in sé tutte le virtù di una persona disabile. Il pane dell’amicizia, l’amore che da esso scaturisce e la fantasia con cui l’iniziativa si sosteneva. L’accesso era consentito solo ai soci tesserati dell’Associazione culturale che gestiva il localino, i clienti erano persone affezionate e conosciute, abituate ad essere viziate dalle attenzioni e dalle cure dei camerieri-gestori. Grazie alla marcia in più che i disabili dimostravano in fatto di accoglienza e comunicatività, oltre che al posto carino pieno di cose genuine, anno dopo anno la Paninoteca crebbe, nonostante i limiti imposti dalla burocrazia. I cinque – sei tavolini erano sempre pieni, e per poter gustare un “mega panino genuino e carico di amicizia e simpatia” bisognava fare la fila.

Una “leggenda” trasmessa oralmente dai camerieri della vecchia guardia narra che una sera, attirata dal nome e dalle storie che si narravano sul localino, Gina Lollobrigida in persona si sarebbe spinta fino a Trastevere, per gustare un panino ripieno di amore e fantasia! Quando si diffuse la voce che la “Lollo nazionale” era lì, si scatenò la ressa per l’autografo… Centinaia, forse migliaia di persone accalcate davanti alla porta pur di vederla… Ma non si trattò solo di leggenda: la grande attrice passò veramente per Trastevere, incuriosita da quel locale che portava il nome del film, che l’aveva consacrata come icona del cinema italiano, si fermò ed entrò, mangiò un’ottima insalata, fece i complimenti a tutti, anche per l’idea sociale che la ispirava il locale e li lasciò estasiati. Fra celebrità e avventori quotidiani, il locale continuò a crescere, fino a quando nel 1999, si tramutò da simpatico bruco in splendida farfalla: un vero e proprio ristorante nella vicina piazza di Sant’Egidio.

****

La Paninoteca non si chiama più “Pane Amore e Fantasia”. Non è neanche più una paninoteca, ma un ristorante vero e proprio dal nome: “Trattoria degli Amici”.

Sono trascorsi vari anni, molti clienti, fedeli o passeggeri, come i turisti che frequentavano Trastevere, hanno contribuito a trasformarlo in luogo affermato, segnalato in guide enogastronomiche di rispetto.

Oggi La Trattoria degli Amici è molto più di un ristorante dove lavorano tredici disabili. Si tratta di un locale bello, raffinato, con cinque sale al coperto e uno spazio esterno, senza barriere architettoniche, in stile trattoria romana d’altri tempi. Ospita una selezione delle opere prodotte dai Laboratori d’arte sperimentale di persone disabili della Comunità di Sant’Egidio, in cui gli artisti esprimono, con competenza e grande impegno, grandi temi attuali con sapienza semplice, ironica, e profonda, rara nel vastissimo e frastagliato panorama artistico contemporaneo.

Non solo, la Trattoria è diventata anche un centro per l’avvio al lavoro di persone disabili, dove ogni anno, si svolgono tirocini gratuiti.

Il “titolo” del corso di formazione, da solo, è paradigmatico: “Valgo anch’io”.

Questo slogan, fiero e rivoluzionario, viene oggi ripetuto da quarantasette disabili, uomini e donne, giovanissimi e maturi, con esperienze scolari specifiche, come i diplomati all’Istituto alberghiero, e ha un valore dirompente, soprattutto in un tempo di crisi generale, in cui trovare lavoro è difficile per tutti.

Alcuni, per la competenza acquisita e la simpatia innata, sono stati avviati da nomi prestigiosi della ristorazione romana nel campo operativo della gestione della sala o dell’aiuto in cucina.

È il caso di dirlo: il seme è germogliato e fiorito e si raccolgono i frutti!