Bianche mura

John Paul, disteso sul lettino, fissava le mura bianche. Dopo troppi anni, non erano più neanche tanto bianche. Non si erano ingiallite, l’uomo, con infinita fantasia, durante i diciotto anni di reclusione, le aveva dipinte, a più riprese, con vari colori. Era partito dal celestino fino ad arrivare al rosso, al viola e al turchese intenso… Abbinava le tinte all’umore del momento.

Diciotto anni di reclusione passati in una cella di tre metri per due nel carcere di massima sicurezza di Huntsville, in Texas, ovvero negli Stati Uniti d’America. Il grande paese leader, che esportava la bandiera della democrazia nel mondo intero.

John da lì a poco sarebbe ritornato libero, non perché avesse finito di scontare la pena, era uno dei tanti uomini condannati a morte, che aspettavano l’imminente esecuzione.

Dopo due rinvii era giunto il suo momento. Per due volte aveva percorso il lungo corridoio, fino alla camera dell’esecuzione e, per due volte era tornato indietro, perché i suoi legali e tutti gli amici, attivisti dei diritti umani, erano risusciti a far rinviare la condanna.

Per due volte era stato fortunato, ma sentiva che si avvicinava la volta “buona”.

Fissò con nostalgia la cella, dove aveva trascorso la parte più significativa della sua vita. Pareti bianche, senza finestre, con un letto che di confortevole e riposante aveva ben poco, arredata con una semplice scrivania e una sedia abbinata. Era diventata un po’ la sua casa, che, paradossalmente, gli sarebbe mancata.

Era stato arrestato, diciassettenne, in quanto colpevole di un omicidio. Al contrario di tanti altri condannati a morte, lui aveva commesso l’omicidio, ed era, un reo confesso. Aveva premuto il grilletto della pistola, uccidendo una donna ricca, dopo averla seguita fino a casa con tre “amici” per rapinarla e violentarla.

Era colpevole e non si dava pace.

Se avesse avuto un bravo avvocato, di quelli che costano tanto e si vedono in televisione, con molta probabilità la pena di morte non gliel’avrebbero comminata. Ma era afroamericano, o meglio nero e, per di più, povero: due caratteristiche che in Texas e, in qualsiasi altro paese, non sono vincenti. Era stato affidato a un avvocato d’ufficio, che alla prima udienza, non si presentò, e che sbagliò il nome del suo assistito per tutta la durata del processo. John non era solo un nero, agli occhi di tanti rappresentava la feccia, come dicevano spesso i secondini, che, con quelli come lui, non ci andavano leggeri.

Un criminale fin da piccolo. Egli non ricordava neanche un giorno, – a parte quelli passati in carcere -, in cui non avesse commesso almeno un reato. Quella notte tragica, però, le superò tutte: non era più solo spaccio di erba o auto rubate. Si erano fatti di cocaina, della droga dei ricchi, e non di quella merda che usavano loro, gasati all’idea di spaccare il mondo, di prendersi una rivincita. Decisero di festeggiare, di lasciare il segno con qualcosa di memorabile. Sembrò naturale a menti ottenebrate dalla rabbia e dalle dipendenze, rapinare un negozietto aperto 24 ore su 24, e poi regalarsi una gran scopata. Ma anche lì bisognava pensare in grande: non la solita prostituta tossicodipendente da marciapiede ci voleva una donna vera. Strafatti di cocaina e di alcol, girarono tutta la notte, finché non incontrarono la loro preda. Una signora di lusso, bella, di classe, l’abito nero, che si muoveva aggraziato, con movenze che avrebbero fatto resuscitare i morti. La seguirono fino a casa, mentre apriva la porta la spinsero dentro e poi…

Buio…

Risa e urla, sangue, le mani bagnate, tutto freddo, una sirena, il lampeggiante sui visi, dolore di ossa spezzate, nessuno rideva più…

John non ricordava tutto di quella notte, e non poté dare una versione attendibile dei fatti. Seppe che era risultato positivo al test della polvere da sparo e che sulla pistola c’erano le sue impronte. Di fronte a questi dati schiaccianti,  il giudice non ebbe dubbi e lo condannò a morte.

La vita non era mai stata facile per John. Una vita dura, violenta fin dalla nascita. Era cresciuto nella povertà e nel degrado, Senza l’amore dei genitori, visto che la madre, prostituta eroinomane, entrava e usciva dal carcere e non sapeva chi fosse suo padre… Forse uno dei clienti della mamma, oppure uno dei tanti ragazzi/protettori. Gran parte dell’infanzia l’aveva passata con le famiglie affidatarie, quelle che prendono un mese in prova per accaparrarsi il sussidio statale.

Ricordava con infinita angoscia la prima volta che aveva dormito da solo. Aveva quattro anni. Né la mamma né il ragazzo di turno erano rientrati a casa quella notte; forse erano stati arrestati. Fu la notte più lunga della sua vita. Aveva paura anche di piangere, perché non voleva che l’uomo nero, che attendeva nell’armadio, se ne accorgesse, e balzasse fuori a prenderlo. Mentre le lacrime gli rigavano silenziose il viso, prese una coperta e un cuscino e con il suo peluche, Teddy, si nascose dietro la lavatrice, in bagno. Rimase lì tutta la notte, cercando di non addormentarsi, per essere pronto ad affrontare il mostro. Ma alla fine il sonno ebbe il sopravvento… La madre lo trovò il pomeriggio seguente che dormiva in posizione fetale, nel suo nascondiglio.

Quell’episodio fu il primo di una lunga serie di incidenti, che segnarono la sua infanzia. Spesso ‘i fidanzati’ della madre sfogavano la loro frustrazione su di lui, punendolo per ogni piccolo capriccio con pugni e calci. La donna, qualche volta, provò a opporsi, in quanto, a modo suo, voleva bene al bambino, ma il risultato che riuscì a sortire fu di essere picchiata a sangue anche lei. A dodici anni il capo pusher della zona lo obbligò a spacciare per conto suo, con la conseguenza, non solo di farlo diventare un tossicodipendente, ma anche di sottometterlo al continuo ricatto di essere picchiato a sangue se non vendeva abbastanza o perdeva la roba. Crebbe male, in fretta, a furia di botte e di droga.

Steso sul letto della cella sorrise stanco. Se avesse raccontato a qualcuno la sua storia non sarebbe stato di certo creduto.

Certo, tutte a te, che sei la vera vittima del sistema!” “Ma a chi la vuoi dare a bere?” “Ammazza che jella, forse era meglio se non nascevi!” Sarebbero state, forse, le risposte più probabili.

Eppure la sua storia era tutta vera e neanche così originale, un cliché ‘normale’ dalle sue parti. Ogni tanto era stato fortunato. Molto fortunato rispetto a David, per esempio, un amico a cui aveva voluto bene davvero…

A differenza di John,  David aveva il papà e fu proprio questa la sua maggiore sfortuna. Infatti era un uomo alcolizzato e violento, che lo picchiava tutti i giorni senza pietà. David aveva spesso ossa rotte e ferite profonde. Un giorno il padre, particolarmente ubriaco, dopo averlo pestato a sangue, mentre era ancora e riverso a terra, semi incosciente, in una pozza di sangue, prese la pistola e gli sparò in mezzo agli occhi. Un solo secondo e fu tutto finito. I testimoni raccontarono che dopo aver sparato, a sangue freddo, scoppiò a ridere, come davanti al più esilarante dei film comici. Nonostante avesse confessato l’orrendo crimine davanti alla Giuria, paradossalmente non fu condannato a morte perché, a differenza di John, aveva ammazzato altra ‘feccia’ e poteva beneficiare di varie attenuanti.

‘Se la feccia si elimina da sola è solo un bene’, ripeteva, spesso, un secondino.

David aveva solo quindici anni…

La vita di John non era stata sempre brutta e piena di violenza. Aveva passato anche anni belli e felici. Anni, per ironia della sorte, trascorsi in carcere, aspettando l’esecuzione. Il carcere, per quanto fosse duro, non era la strada con la sua violenza cieca. Aveva studiato, lavorato, frequentato corsi biblici, e aveva scoperto cosa volesse dire essere un uomo. Aveva conosciuto gente disposta ad ascoltarlo.

John e i ragazzi come lui, avrebbero avuto bisogno di qualcuno che desse loro una possibilità…

Il primo a tendergli una mano fu padre Michele, un prete italiano, che si era trasferito in America per sostenere i condannati a morte. Era un uomo con il quale amava tanto parlare, perché al contrario degli altri possedeva una qualità preziosissima: sapeva ascoltare. Il prete italiano, inoltre, al contrario di tutti, non lo giudicava; gli voleva bene e basta e lo faceva sentire in pace con se stesso.

Oltre a Padre Michele, aveva usufruito anche di altri contatti speciali, come le associazioni americane per i diritti dell’uomo, o come una ragazza della Comunità di Sant’Egidio di Roma, che con regolarità, gli spediva lettere affettuose, cariche di speranza, oltre che di un piccolo tributo economico.

I soldi necessari ad istruire un nuovo appello furono trovati proprio grazie a questa comunità.

Tutto questo sarebbe presto finito. Nel pomeriggio sarebbero venuti a prenderlo e, per la terza volta, avrebbe percorso il lunghissimo corridoio verso la stanza dell’esecuzione.

Fortunatamente il mito dell’ultimo pasto del condannato a morte era una leggenda metropolitana. Dopo tanti anni chiuso lì dentro a mangiare sempre e solo le stesse cose, non avrebbe saputo scegliere niente di speciale. Meglio andare via con i sapori familiari in bocca…

Mentre sorrideva dei pensieri assurdi, che gli affollavano la mente, sentì aprirsi le sbarre della cella.

La figura rassicurante di Padre Michele si materializzò all’ingresso della cella. Anche quella volta il prete italiano l’avrebbe accompagnato fino alla stanza. Oltre a una gratitudine immensa, provò un moto di pena per quell’uomo, che aveva scelto di stare vicino, fino all’ultimo, a gente condannata al suo stesso destino.

“Salve Padre Michele, come sta? La vedo in ottima forma!” Disse, con affettuosa ironia, l’uomo.

“In eccellente forma”, rispose, allegro, il prete.

Non c’era bisogno di dire altro, dopo tanti anni di amicizia bastava poco a entrambi per capirsi, e John sapeva benissimo che, se solo avesse potuto, Padre Michele avrebbe preso il suo posto.

“Hai visto l’ultima partita dei Texas Rangers? Sono stati fenomenali!”

“L’abbiamo vista in sala mensa. Per fortuna ultimamente si sono ammorbiditi…” rispose, strizzando l’occhio.

“Già, sarebbe stato un peccato perdersela. Partite simili si vedono poche volte nella vita!”

I due amici continuarono a parlare per un’ora. Discorsi allegri e frivoli: l’inespresso, il non detto, il sottinteso, traspiravano dagli sguardi, rimbalzavano dallo sguardo dell’uno a quello dell’altro. A cosa sarebbe servito fare discorsi seri e tristi poco prima della morte? Meglio godere gli ultimi momenti in serenità, con una delle poche persone che gli avevano voluto veramente bene.

Ma, puntuali come sempre, i secondini arrivarono a prendere il detenuto. Legato con una lunga catena, che univa i piedi ai polsi, abbigliato con la consueta tuta arancione, lo condussero lungo il corridoio, esibendolo come un trofeo. Padre Michele li seguiva, in silenzio, con in mano la Bibbia, unico, vero conforto, in momenti come quelli.

John provò un senso di sarcasmo. Che senso poteva avere una scenografia così ben allestita? Legato in quel modo, scortato da due energumeni…  come se fosse potuto fuggire! E come se avesse voluto fuggire dopo tanti anni, due rinvii e i sensi di colpa che avvertiva.

La lunga detenzione avevano annientato la voglia di vivere…

Lungo l’interminabile tragitto nessun detenuto ebbe il coraggio di guardarlo in faccia. Non per disprezzo, ma per paura. Sapevano che prima o poi anche loro avrebbero fatto il suo stesso viaggio.

Dopo un tempo che sembrò infinito, arrivarono davanti alla stanza dell’esecuzione. Lì dentro Padre Michele non sarebbe potuto entrare, furono costretti a salutarsi di fronte alla porta grigia. Un lungo abbraccio e lacrime silenziose. Nessuna parola di commiato, nulla di nulla. Le parole volano, i gesti restano.

John entrò nella stanza. Le pareti erano circolari, quasi ovali, di color bianco, tutto in quel carcere era di color bianco-grigio. In mezzo alla stanza vi era il famigerato lettino a forma di croce, con le cinghie e gli strumenti necessari per iniettare i tre liquidi mortali. Alla sinistra il “sipario”, le spesse tende di velluto, dietro le quali la vetrata permetteva a coloro che ne avevano diritto di assistere all’esecuzione.

Ironica coincidenza: due stanze ovali con due neri al loro interno: solo che uno era l’uomo più potente del mondo e l’altro l’ultimo della ‘feccia’…

I secondini tolsero le catene e lo fecero “accomodare” sul lettino. John sentì le cinghie di cuoio che gli stringevano le braccia, le gambe e il torace. Fu una sensazione strana sentire il sangue che premeva sotto le cinghie. Il dolore, il bruciore, la pelle schiacciata e tirata…

Dopo aver assicurato John al lettino, entrò “il boia”, che era un operatore medico, che doveva inserire l’ago nel braccio e constatare la morte del detenuto. John lo guardò con profonda tristezza. Provava pietà mista allo schifo per l’ingranaggio di quel sistema, pronto a svolgere con zelo, l’infausto servizio.

Si poteva ancora dormire bene la notte dopo aver tolto la vita a qualcuno? Lui non ci era riuscito per diciotto anni…

Quando finalmente tutto fu pronto, uno dei secondini aprì il sipario. Disposti su tre file di sedie ordinate, vari spettatori. Il Direttore del carcere, il Procuratore, l’ex compagno della vittima, ma soprattutto Padre Michele, che con il suo sguardo infondeva un sentimento di speranza.

John guardò per l’ultima volta l’amico, chiese perdono per i suoi peccati e si girò verso l’addetto medico, come per dare l’assenso a procedere.

Fece un solo cenno con il capo.

Il “boia” schiacciò il pulsante, che avrebbe fatto defluire la prima delle tre sostanze letali nel corpo. Appena la sostanza si esaurì, la testa di John iniziò a girare vorticosamente, come se fosse ubriaco.

Fece in tempo solo a vedere la seconda sostanza spessa e bruna iniettata nelle vena, prima di abbandonarsi a uno stato sospeso, come di sonno senza ristoro…