All’ombra delle rovine

“È follia!”

“Che altro possiamo fare? Abbandonarci alla sorte? Rinunciare a tutto?”

La discussione fra i due preti si stava animando sempre di più nell’angolo della chiesa, tra bisbigli e piccoli sbotti di umore.

“Scappa da quest’inferno in terra! Vai lontano, tanto qui non c’è niente da perdere. In Canada hai dei parenti, una famiglia numerosa e ben avviata, vero? Vai a stare da loro, qui non si può resistere. La situazione si è fatta pericolosa…”

“Fuggire da Aleppo? Lasciare i miei fratelli e i miei compagni in guerra e starmene comodamente seduto sulla poltrona di mia cognata, a seguire il dramma sulla televisione satellitare a migliaia di chilometri di distanza? Come mi può chiedere questo, Monsignore?”

“Lo so bene, ma rifletti: la nostra comunità in Siria è agli estremi. Pensa a quel villaggio dove rimangono solo poveri vecchi indifesi, senza un prete, dopo che tutti i giovani e le famiglie sono fuggite, di notte, verso il confine. Chi poteva si è messo in salvo con la fuga in Turchia, sono pochi chilometri di sentieri in montagna. Dopo gli ultimi attacchi è da folli rimanere a proteggere le nostre Chiese, quando gli stessi fedeli sono facili bersagli. Se la guerra continuerà, come temo, non rimarranno molti Armeni in Siria. Per questo devi andare via. Una volta finita questa maledetta guerra, tu e gli altri del tuo livello, tornerete, per ricostruire la nostra comunità. Lascia che siano i vecchi come me a sacrificarsi. Tu sei giovane, hai solo ventisette anni, un futuro tutto da vivere… e, soprattutto, sei indispensabile per il tuo popolo! Hai studiato a Roma, sei prezioso per noi, non puoi permetterti alcun errore”.

La franchezza e la logica del ragionamento fecero trasalire il giovane prete armeno. Uno dei pochi privilegiati, che con qualche sforzo e molto aiuto, aveva potuto formarsi a Roma. L’anziano Monsignore non aveva torto: rappresentava un prete indispensabile proprio perché aveva studiato nel cuore della Chiesa. Quell’aura di cultura e distinzione gli avevano concesso l’iscrizione onoraria all’élite del clero del suo paese. Nella Città eterna non si arriva per caso. A Roma non c’erano solo le migliori Università Pontificie, ma uno spirito di universalità, che travolgeva, e cambiava i punti di vista. Non si poteva rimanere uguali a se stessi una volta arrivati a Roma. Non si trattava solo del fatto di superare il provincialismo e di vivere in una società non più a maggioranza islamica. A Roma si studiava accanto a seminaristi provenienti da ogni parte del mondo. Si imparava a conoscere e rispettare culture e popoli con i quali, difficilmente, un giovane Armeno siriano sarebbe mai venuto a contatto. Il giovane prete aveva incrociato, in maniera fortunosa, o forse provvidenziale, una comunità di giovani laici, nota come Comunità di Sant’Egidio, con cui aveva stretto amicizia, quando, per la sua formazione, aveva svolto servizio in una mensa per i poveri a via Dandolo. Quella gente, che all’inizio gli era parsa un po’ strana, gli aveva insegnato come i poveri fossero decisivi per la sua vita spirituale. In quei volti iniziava a riconoscere l’immagine di Gesù; aveva trovato nuovi maestri di fede e d’amore.

“Mi stai ascoltando?”

Il brusco richiamo riportò il giovane alla realtà. Se a Roma aveva vissuto anni felici di formazione, ora si trovava nella desolazione. L’inferno, il baratro della guerra.

“Certo. L’ascolto con riverenza!”

Prese ancora qualche secondo, per riordinare le idee, e rispondere al suo superiore.

“Capisco perfettamente il suo proposito e condivido la sua ragionevolezza… La ringrazio con tutto il cuore per la premura verso di me e verso il nostro popolo. Ma proprio perché ho studiato a Roma non mi posso tirare indietro. Mi sono formato nella culla della fede e, anche per questo motivo non posso lasciare in balia degli eventi i miei fratelli. Ai nostri poveri Armeni di Siria non rimane più nulla, se non la celebrazione della Divina Liturgia. Non posso negare questa consolazione ai poveri vecchi, che rischiando la vita, difendono le nostre Chiese. Il dovere pastorale me lo impone. Aspettano Gesù, l’unico consolatore, l’unico che possa lenire ferite e paure. Lei, stimato Padre, vede nei loro occhi quell’attesa di riscatto, sente nelle loro invocazioni l’ansia di salvezza. Qualcosa si è rotto, irrimediabilmente, nella nostra amata terra, ma noi dobbiamo conservare la speranza e il coraggio. L’ascesa verso il Regno richiede pazienza e generosità, come tutti voi, miei maestri, mi avete insegnato. Per questi motivi non posso rifiutarmi di andare da loro a celebrare la Santa Messa. Già una volta il nostro popolo ha rischiato lo sterminio nel Metz Yeghern e, solo grazie alla fede e all’aiuto di Dio, siamo risorti. Noi costituiamo una comunità di sopravvissuti, l’ho appreso da bambino, in Siria, e in gioventù, a Roma. Non posso sottrarmi al debito del mio ministero”.

L’Arciprete lo fissava impietrito.

Il giovane raccolse ancora un po’ di coraggio e concluse: “Sono un prete Armeno cattolico, responsabile della salvezza delle anime; andrò a Kessab a celebrare l’Eucarestia, costi quel che costi!”

Una scintilla di ammirazione brillò negli occhi stanchi del prelato. Non era disinteressato alla sorte dei poveri cristiani in Siria; al contrario, era stimato e ben voluto da tutti e il suo servizio era impeccabile. Dopo una vita intera passata nella paura, però, quella guerra fratricida aveva definitivamente distrutto il suo senso di eroismo cristiano.

Gli Armeni vivevano da secoli in Siria e avevano condiviso con i compatrioti Siriani di ogni etnia e confessione tutte le stagioni, facili e difficili della storia di quella terra. La loro cultura era intessuta della civiltà siriana. Sebbene fossero una minoranza cristiana, in un paese musulmano, nel corso dei secoli, con il sistema dei Millet – la divisione e la parziale autonomia delle etnie sulla base dell’obbedienza religiosa -, gli Armeni avevano ottenuto protezione e privilegi, durante i vari califfati Ottomani. La benevolenza era stata conquistata per i buoni servigi resi e grazie alla grande abilità di mercanti tessili e orafi, mestieri tenuti in grande considerazione nell’Impero Ottomano.

Prima della guerra civile in Siria si contavano 190.000 Armeni fra apostolici, di confessione ortodossa, cattolici e protestanti, sparsi tra Aleppo, Damasco, Deir ez Zor, Hasake, Latakiyah, Qamishli e Kessab. In virtù del loro numero, dato che la costituzione siriana prevedeva una rappresentanza parlamentare di ogni minoranza, gli armeni erano riusciti ad avere ben due parlamentari, una cifra non trascurabile, vista la composizione variegata delle minoranze etniche presenti in Siria. Da anni le cose stavano peggiorando, dalla fine degli anni ‘70 la loro rappresentanza fu dimezzata, e diritti e privilegi si andarono assottigliando. La dittatura degli Assad, provenienti da una minoranza religiosa musulmana, – gli Alaziti -, paradossalmente aveva garantito una certa libertà di culto. Ogni dittatura che si rispetti mira ad avere meno dissidenti e agitatori interni possibili; inoltre molti Armeni erano colti e ricchi, e formavano una classe sociale di tutto rispetto. Si era imposto una sorta di equilibrio, che alla fine, era destinato a sgretolarsi tragicamente. Uno dei paesi più belli e antichi del mondo, che conservava le tracce della civiltà mediterranea e cristiana, era in fiamme. Il fuoco stava divorando ogni cosa, lasciando solo cenere fumante.

“Che Dio ti protegga, figlio mio!” Bisbigliò l’Arciprete, con le lacrime agli occhi. “Se non posso impedirti di andare, almeno pregherò per te!”

“Grazie”. Il giovane prete si congedò sobriamente dal suo superiore.

Per il resto del pomeriggio rimase a preparare le valigie. Si sarebbe dovuto fermare nella piccola cittadina di Kessab almeno due notti, perché la lontananza e la scarsa agibilità delle strade in quel periodo, dilatava i tempi di percorrenza. In verità aveva un carattere tutt’altro che coraggioso, avvertiva la paura come una bestia oscura, che gli ansimava sul collo. Solo la fede, incrollabile, gli aveva permesso di formulare la richiesta suicida.

“Non riuscirò mai a salvarmi!” Esclamò, buttando tutto all’aria. “Perché ho accettato l’incarico qui in Siria? Non potevo cercarmi un ufficio a Roma, o una prospera sede della diaspora da amministrare comodamente? Mi sono condannato a morte certa…”

Si accasciò a terra. Lo sguardo vagò nella stanza senza una meta. Fotografie, libri, mobili, i pochi oggetti che possedeva: nulla aveva più senso. I paramenti che custodiva con fierezza e amore, dono della sua famiglia, gli sembravano altrettanto inutili. Giacevano inerti nella valigia e sembravano, con il loro splendore e il loro pregio, irridere il suo dramma. Si ritrovava impaurito, a terra, a piangere come un bambino. Voleva scappare, andare lontano e non tornare mai più. Non voleva essere un eroe, tantomeno un martire dello scontro fratricida. Voleva solo onorare “onestamente” il ministero presbiterale. Si era trovato in un frangente disperato e desiderava uscirne il prima possibile.

Nella prostrazione lo sguardo si posò su una foto scattata a Roma. Un panorama della Basilica di San Pietro, vista dal Gianicolo. Insieme a lui c’era il confratello con cui aveva condiviso gli studi a Roma, che era ritornato con lui in Siria per diventare prete, e quel suo amico della Comunità di Sant’Egidio, con il quale aveva trascorso i momenti più belli del soggiorno romano. Gli tornò in mente l’antico insegnamento di un rabbino, che a Roma, aveva sentito ripetere più volte: “se non ci sono più uomini attorno a te, sforzati di essere un uomo!” In quel momento non servivano politici spregiudicati, eroi di guerra, reparti speciali o intelligence a risolvere il dramma della Siria. Erano necessari, semplicemente, uomini che si prendessero le loro responsabilità. Non ci si poteva accontentare di svolgere il proprio ministero, seppure in maniera onesta; bisognava lavorare per riportare il paese alla convivenza di un tempo. La paura e l’individualismo avrebbero solo fomentato il vento di divisione che aveva portato a tanta sofferenza.

Si calmò e ricomincio a preparare i bagagli. Oltre ai paramenti liturgici, il Messale, e a tutto l’occorrente per la celebrazione eucaristica, mise in valigia anche quella fotografia. Era tutto pronto e, finalmente, poteva partire.

All’alba del mattino seguente scese nel cortile della Chiesa, di cui era vice-parroco. La notte lunga e agitata aveva affaticato l’espressione del suo viso. Dall’ingresso della canonica si fermò e si voltò ad ammirare, ancora una volta, l’edificio imponente e tanto amato, con una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Si riprese e si diresse verso la macchina che avrebbe usato per il viaggio.

Accanto alla vecchia Giulietta 1.6 (in Siria circolano molte vetture italiane di terza mano), trovò l’Arciprete ad aspettarlo.

“Eccoti, finalmente!” Scandì con voce calda e paterna. “Ti stavo aspettando. Volevo salutarti di persona prima della partenza.”

“Grazie, Monsignore, Dio ve ne renda merito! Sono veramente onorato…”, rispose, imbarazzato.

“Sei un buon prete e ti auguro una lunga carriera ad Aleppo. Hai studiato a Roma e hai un buon cuore: due requisiti fondamentali, come sai bene”.

Lo strinse in un lungo abbraccio.

“Addio!” Sussurrò, con un nodo in gola.

Il giovane sistemò il bagaglio ed entrò in macchina. Guardò ancora una volta l’anziano prelato e la sua Chiesa. Accennò un sorriso e, premendo sull’acceleratore, uscì dal cortile della canonica. Nella mente e sulle labbra le parole che dall’infanzia avevano accompagnato i momenti più difficili, secondo l’insegnamento della nonna: Hayr mer, Padre nostro…

Le strade della città erano disastrate. Sui muri dei palazzi si vedevano i fori dei proiettili. Alcuni edifici erano crollati per i colpi di granate. La pochissima gente, per strada, correva all’impazzata, rifugiandosi in tutti gli angoli coperti. Si usciva di casa solo se si aveva qualche cosa di indispensabile da fare: in strada fra cecchini, attentatori ribelli e polizia il rischio era altissimo. Gli occhi della gente erano spenti e pieni di paura. Il prete attraversò luoghi che un tempo erano stati pieni di folla, il mercato, una moschea molto popolare, un liceo. Ora si scorgevano solo macerie.

Dopo poca strada e molte rovine arrivò alla periferia di Aleppo. Per essere la fine di aprile il caldo, amplificato dalla polvere e dall’angoscia, era già intollerabile. Girato l’ultimo cantone trovò la strada bloccata dalla polizia. Un denso fumo nero si stagliava maligno dietro l’isolato, recintato dalle guardie. Urla, pianti e sirene d’ambulanza risuonavano nell’aria, satura di odore di sangue e polvere da sparo.

Un agente di polizia, dallo sguardo affranto, deviò la macchina verso una strada secondaria. Il presbitero, con gli occhi gonfi di lacrime, assecondò la deviazione. Anche se ormai gli attentati erano all’ordine del giorno, il giovane non si era abituato a quell’orrore. Dopo molti giri tortuosi fra strade interrotte e case distrutte, riuscì ad arrivare nei pressi di Al–Assad Wood, dove avrebbe imboccato la strada per Kessab.

***

L’Arciprete era inquieto. Da quando si era svegliato aveva una sensazione d’ansia, che non riusciva a spiegare. Non solo il vice-parroco non era ancora ritornato da Kessab, ma non aveva nemmeno dato notizie del villaggio, della comunità e della Chiesa, in cui aveva officiato. Era così agitato, che, a stento, riuscì a terminare l’Ufficio delle Lodi. Si trovava nella piccola cucina della canonica per prepararsi una tisana distensiva, nella vana speranza di poter placare l’angoscia, quando il telefono squillò.

“Pronto? Sono il parroco di Surp Yerrortutyun, con chi parlo?”

“Cane infedele, sappiamo bene chi sei! Onore alle forze di liberazione armata della Siria! Dio è con noi! Fino a quando con il favore divino non avremo instaurato il nostro Emirato in Siria, il vostro prete rimarrà nostro ostaggio…” Gracchiò una voce carica di odio.

L’Arciprete, in preda ad un malore, lasciò cadere la cornetta del telefono a terra, senza seguire il resto della delirante conversazione…