Un amore impossibile

“se tu sapessi chi è veramente il tuo migliore amico! Chi ti è stato sempre vicino! Non reagiresti così ogni volta che mi vedi!” urlò a squarcia gola Ernesto.

“io ci sono sempre stato. Quando eri triste, quando eri felice, anche quando ti sei portato a letto quel coso tutto muscoli, senza neanche un pelo e con l’agilità di una farfalla senza un’ala!” il povero Ernesto correva senza guardarsi indietro mentre cercava di spiegare a Silvia quello che realmente provava per lei.

Ma Silvia era semplicemente sorda alle sue parole, del resto non vi era peggior sordo di chi non volesse ascoltare.

Eppure la sua non era semplice amicizia e neanche banalissimo amore, la sua era dedizione più totale, lui viveva esclusivamente per lei. Ogni notte, infatti, lui vegliava sui suoi sogni; si adagiava sempre sul suo cuscino, vicino al suo incantevole volto, così vicino da sentire il soffio del suo respiro e per tutta la notte le faceva la guardia, perché nessuno la potesse disturbare mentre dormiva, era così attento che nemmeno le zanzare osavano avvicinarsi.

Adagiato vicino a lei, sul suo cuscino guardava in tutte le direzioni e per tutta la notte. Nessuna sentinella era come lui, nessuna guardia era così attenta e scrupolosa. Lei era la sua regina e come tale doveva essere protetta.

Poi come ogni amante che si rispetti, la mattina al sorgere dell’alba, prima che lei si svegliasse, lui le lasciva un preziosissimo regalo. Una creazione di seta purissima che intriso di rugiada risplendeva dei colori dell’arcobaleno.

Del resto la sua progenitrice era stata condannata da una certa Atena a tessere per tutta la vita e quindi ormai per tutti quelli della sua famiglia, dopo millenni di esperienza, tessere era diventato essenziale come l’aria e facile come camminare. In realtà molti dei suoi cugini tessevano proprio camminando… ma questa è un’altra storia.

Ma allora perché lei non capiva, non voleva ascoltare le sue motivazioni! Perché non lo voleva accettare?

Domande che passavano veloci nella mente di Ernesto, veloci quasi quanto i piatti che Silvia gli lanciava contro e che lui doveva schivare con tutta la sua agilità.

Ogni volta era la stessa storia, persino quel pulcioso del suo cane era più amato e considerato di lui. Eppure lui era molto più discreto, molto più presente, potendo arrivare in posti a lui proibiti, come il letto o la doccia. Lui non aveva bisogno di essere portato a spasso, di essere pulito, di essere nutrito, di essere curato, lui era indipendente – anzi aiutava anche a tenere la casa pulita e sgombra da fastidiosissimi insetti – ma nonostante questo lui non contava nulla.

Ma se fosse stato solo “nulla” a lui sarebbe anche bastato, quello che lo feriva nel profondo del suo cuore era che Silvia provava per lui disprezzo, orrore e repulsione…

Perché?

Cosa aveva mai fatto di male per meritarsi questo dall’unica donna che lui avesse realmente amato?

Triste destino il suo che si concluse in un angolo del salone della casa di Silvia. Con le spalle al muro, conscio che quella sarebbe stata l’ultima volta, non poté fare a meno di ammirare la bellezza della sua donna.

Quei capelli color oro, più fini e lucenti della sua seta. Quegli occhi verdi, certo ne aveva solo due ma comunque erano fra i più belli che lui avesse mai visto.

Ma non era per bellezza che Ernesto amava Silvia, anche perché lei di difetti ne aveva parecchi… per esempio aveva solo quattro arti, un po’ troppo pochi anche per uno di larghe vedute come lui. Non aveva peli e quei pochi che aveva passava ore e ore a estirparli, non produceva seta, aveva delle strane cose bianche e dure in bocca, mangiava verdure e non linfa vitale di insetti vari… insomma era veramente… come dire… “particolare”!

Ma questi “piccoli” difetti fisici non gli impedivano di amare quella creatura così divina. Perché il suo amore andava oltre le semplice apparenze, questo avrebbe voluto dire a sua madre, sempre se fosse riuscito a non farsi mangiare prima.

Ma ormai era troppo tardi, non avrebbe più rivisto gli otto “teneri” occhietti di sua madre, bramosi di divorarlo. Ormai era arrivato al capolinea…

“ti amo” fu l’ultima cosa che riuscì a dire.

“crepa schifoso ragno” fu la replica spietata di Silvia mentre lo schiacciava in un angolo con la punta del suo tacco…

Un giorno come tanti

24 aprile 1915, all’alba, nel cuore dell’antico quartiere di Sultanahmet al centro di Istanbul.

La brezza di vento sul promontorio su cui svettava una grande moschea di fondazione imperiale si era chetata, fino a trasformarsi in una bava sottile. Da quel punto dominante ogni angolo del centro storico sembrava brillare, riflesso dalle onde del mare.

In città il vento era costante, e tirava le vele dei caicchi, che in moto perpetuo facevano la spola tra le due sponde del Corno d’Oro, tra la riva d’ Europa e quella d’Asia e i suoi mille tragitti filamentosi, fino alle isole di Marmara, ai Dardanelli e al mare più vasto.

Era una calda giornata di primavera, il tempo scorreva lento, quasi immobile, in attesa dell’estate torrida. Gli abitanti si aggiravano per le vie della metropoli, capitale dell’Impero Ottomano, cercando di sbrigare le proprie faccende. Quel giorno però, a differenza di altri, nell’aria si percepiva qualcosa di diverso: un odore strano, l’assenza del vento, le sirene marittime attutite e i passanti inquieti ben oltre la solita frenesia commerciale levantina. Gli anziani erano certi: stava per accadere qualcosa di orrendo, anche se nessuno avrebbe potuto immaginare la realtà.

Andrea Kuciukian, anziano armeno, originario della città di Mardin, aveva vissuto in prima persona i massacri del 1894 e si sentiva particolarmente nervoso. L’atmosfera così innaturale gli ricordava gli inizi della strage del 1894-1896, quando furono trucidati senza pietà più di 30.000 armeni. Avvertiva una sensazione simile, un vago presagio come cappa pesante. Sperava di sbagliarsi, perché nella grande e civile Istanbul regnava il diritto e non la legge del più forte. Neanche Abdul Hamid, l’armenovoro, aveva osato tanto; aveva lasciato in pace gli armeni residenti nella capitale, più che altro per paura dell’opinione pubblica e delle potenze straniere, che lì avevano le loro influenti, sedi diplomatiche. Andrea Kuciukian si era traferito a Istanbul, perché temeva che prima o poi i Turchi ci avrebbero riprovato e, per non correre rischi, era andato nell’unico posto sicuro di tutto l’Impero Ottomano.

Si stava dirigendo verso il Patriarcato armeno: aveva bisogno di dialogare con qualche prete. Angosciato, aveva un respiro affannoso, come un enfisema che spezzava parole e pensieri. Voleva parlare col capo cantore dalla voce angelica, padre Komitas, che l’avrebbe saputo comprendere. Lentamente, vicolo dopo vicolo, si dipanava la matassa di percorsi obliqui, nei quali miriadi di uomini, di ogni condizione, si muovevano come naufraghi alla ricerca di un ricetto sicuro. Si era diretto dall’antico quartiere armeno di Samatya, verso il declivio dolce, oltre le mura marittime. Deviò, dopo una lunga e penosa camminata, verso Kumkapi, altro cuore storico della presenza armena ad Istanbul. Dai vicoli si scorgeva la mole neoclassica, rassicurante, candida della chiesa patriarcale. Mentre era in cammino notò un fatto strano: per le strade, a ogni incrocio si aggiravano guardie, in gruppi di sei, che mostravano chiari segni di nervosismo. Provò ad accelerare il passo, per quanto gli permettevano le gambe malferme, ma ancora massicce di ottuagenario.

Svoltato l’ultimo angolo, così stretto da sembrare cieco a un occhio inesperto, si bloccò di colpo e si tramutò in una statua di sale. Di fronte alla porta di casa di una nota famiglia di notabili armeni si era radunato un drappello di poliziotti armati di fucili. Il cuore gli galoppava come un cavallo imbizzarrito e, nella mente gli balenarono mille pensieri in un istante, uno peggiore dell’altro; fece appena in tempo a scantonare dietro l’angolo del vicolo, prima che una delle guardie si voltasse e lo interpellasse. Bloccato dalla paura, con le spalle al muro, l’anziano armeno rimase ad ascoltare, impotente, pregando che nessuno lo scoprisse.

“Aprite immediatamente la porta o sfondiamo!” Fu l’ordine perentorio di uno dei poliziotti.

Seguirono quattro possenti colpi sulla porta di legno di faggio, poi, di nuovo, l’ordine di aprire la porta, condito di bestemmie e di urla.

“In nome del governo di sua Maestà Imperiale, se non aprite immediatamente procederemo con i nostri mezzi e non sarà più fatto salvo il diritto di asilo!”

“Per l’amor di Dio, non fate nulla di avventato! Stiamo arrivando all’uscio…” Risuonò una voce di donna spaventata, dietro il massiccio portone.

Si materializzò una governante sulla cinquantina, leggermente in carne, con i capelli raccolti in uno chignon e un largo vestito color carta da zucchero, di buon gusto europeo. Era terrorizzata, aveva le mani, intrecciate all’altezza del petto, che non smettevano di tremare. Si guardava in giro, come se avesse paura che, da un momento all’altro, tutto il mondo intorno potesse essere ingoiato da un’entità maligna. La casa, dall’ingresso visibile dalla porta socchiusa, anticipava un interno lussuoso, che indicava lo stato sociale dei suoi residenti. Gli armeni erano fra i più benestanti, sia delle varie comunità cristiane, che musulmane. Commercianti industriosi e abilissimi artigiani, più di una volta erano stati presi di mira dalla autorità turche proprio in virtù del loro ingegno. L’invidia e l’avidità rendono l’uomo feroce più delle bestie.

“Agente, in cosa posso esserle d’aiuto?” Azzardò, con un filo di voce, la donna intimorita.

“Casa di Avetìs Bagradiàn?” Sputò, sprezzante il capo – pattuglia.

“Sono la domestica… in cosa le posso essere utile?” Provò a sviare, nella speranza che si trattasse di un malinteso.

“Dove si trova il padrone di casa?”

“Al lavoro, effendi.

“Quanti figli del proprietario abitano in questa casa?”

“Cinque in tutto, eccellenza! Due maschi e tre femmine…” rispose, sempre più strozzata dal timore…

“Sono tutti in casa all’istante?”

“Certo, maresciallo” rispose ancora la donna, con le lacrime agli occhi, senza trattenere i sentimenti.

“Li raduni immediatamente davanti alla porta. E’ un ordine inderogabile. Dovete seguirci tutti in caserma per accertamenti sul vostro stato!” Urlò in modo secco la guardia.

Alla povera donna sembrò che il mondo cadesse sulle sue spalle. Non aveva la forza di chiamare la padrona di casa, che tremava dietro lo spesso tendaggio, nella salle à manger. Non si trattava di avvertimenti, o di un bieco tentativo di estorsione, non insolito. Volevano loro, le persone, la carne viva. Contati, incolonnati, da portare subito via. La dama armena sapeva che nel momento in cui sarebbe uscita dal nascondiglio, offerto dal tessuto di pregevole manifattura fiorentina, non avrebbe più potuto sperare in alcuna difesa. Che il primo passo fuori dalla porta sarebbe coinciso con l’abbandono di tutto, con la spoliazione definitiva. Questo sentimento atavico si respira, come la paura, solo nelle case di famiglie abituate da secoli alle persecuzioni: una coscienza di pericolo e debolezza, che rimane per sempre viva in un angolo della mente. La donna decise di conservare la dignità della sua condizione. Uscì fino alla soglia del portone, accanto la governante.

La cameriera, dal canto suo, non riusciva a immaginare cosa potesse succedere. D’istinto si guardò alle spalle all’arrivo della padrona, nel vano tentativo di nasconderla, proteggerla. La gran dama avrebbe voluto urlare ai propri figli di scappare, ma il buon senso ebbe il sopravvento sull’istinto, si limitò a chiedere, timidamente, spiegazioni.

“Ci sono giunte voci di una imminente rivolta armena. Per questo stiamo perquisendo tutte le vostre abitazioni in cerca di armi per gli attentati. Se siete estranei ai fatti, tornerete alle vostre case; se siete coinvolti pregherete il vostro Dio di non essere mai nati. Non ci sarà pieta per chi si rivolta contro il governo del Sultano…”

“Non abbiamo nulla a che vedere con quello che dite! Ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo, credetemi!” Sussurrò la donna, in lacrime, inginocchiandosi ai piedi del militare.

“Lo appureremo fra poco… Chiami i suoi figli e incolonnatevi senza opporre resistenza!”

Una terza voce femminile, più gaia e leggiadra, emerse dalle profondità della casa.

“Mamma, cosa sta succedendo?”

Una ragazzina, di poco più di sedici anni, apparve sull’uscio. Aggraziata, molto avvenente, dall’andatura composta. Indossava un vestito giallo canarino di ottimo taglio e aveva lunghi capelli castani, raccolti in una coda di cavallo. La madre la guardò con disperazione.

“Iskuhì, vai a chiamare i tuoi fratelli. Sbrigatevi, dobbiamo seguire i signori fino alla caserma…”

La fanciulla guardò con angoscia la madre, intuendo la gravità della situazione, ma reagì con calma, mettendo in risalto una maturità maggiore della sua giovane età.

“Subito, signora madre, vado subito.”

Pochi minuti dopo la ragazza uscì con in braccio un bambino di poco più di tre anni, seguita da un ragazzino di dodici anni, una bambina di circa dieci e un maschietto di otto anni. Tutti e cinque, anche il più piccolo, in braccio alla sorella maggiore, seguirono in silenzio la madre, che veniva condotta dai poliziotti verso un camion, parcheggiato nella piazza di fronte. Il vecchio Andrea, dal suo nascondiglio, riconobbe molti armeni amici sul quel camion, ammassati ad aspettare di essere trasferiti alla caserma di polizia. Avevano occhi di prigionieri, carichi di terrore. Per gli armeni dell’Impero Ottomano il futuro era sempre sembrato incerto, ma ora, forse, temevano un epilogo drammatico.

Sul camion vi erano tanti uomini, alcune matrone dignitosissime, bambini zitti in maniera innaturale o che piangevano come ossessi. I soldati rastrellavano tutti gli armeni, in cerca dei presunti sobillatori. Andrea ebbe un moto di rabbia misto a frustrazione: come vent’anni prima si trovava inerme ad osservare la sua gente che veniva deportata. Uno dei prigionieri osò chiedere a una guardia:

“Dove ci portate, effendi? Perché ci avete arrestati?”

“Silenzio, feccia armena! Esseri rivoltosi e infidi, risponderete dei vostri reati!” Esclamò la guardia, colpendo sul viso, con il calcio del fucile, il pover’ uomo che aveva osato lamentarsi.

Andrea non aveva più dubbi: il drago famelico annidato nei meandri della Sublime Porta aveva risollevato il capo assetato di sangue, pronto a saziarsi di nuovo. Corse con le residue, umili forze al Patriarcato, verso padre Komitas, prima che fosse troppo tardi. Arrivò ansimante per il grande sforzo: le guardie non erano ancora sul posto. Entrato nel cortile della grande Basilica, si diresse alla porticina laterale della canonica, e iniziò a picchiare disperatamente il battente.

Vartapet, la prego! Mi apra subito, sono Andrea… è urgente!” Urlò con tutto il fiato che gli rimaneva.

Il prelato aprì la porta e il vecchio non riusciva più a parlare per il grande sforzo compiuto.

“Calmati, amico mio. Entra e siediti. Che ti è successo di così sconvolgente?” Disse l’uomo, mentre gli porgeva un bicchiere d’acqua.

Andrea bevve in un solo sorso, attese qualche secondo per sedare lo spasimo, e scoppiò in un pianto disperato:

“Sono ricominciati i massacri!”

L’artiglio feroce della bestia nera e rossa dilaniò lo stomaco del prete. Per un momento si sentì venir meno…

Il vecchio, vedendolo ammutolito, scosse il sacerdote, implorando una spiegazione.

“Perché, Padre? Perché tutto questo? Perché di nuovo?” Gridò, portando le mani al viso…

“Solo perché siamo Cristiani. Portiamo sulle spalle il nome e la croce di Gesù! Solo per questo figlio mio, solo per questo…”

Non riuscì ad aggiungere altro, furono interrotti da colpi violenti alla porta della canonica.

“Polizia! Aprite immediatamente la porta, in nome del nostro sultano Maometto V”.

La brezza marina scompigliava i capelli dei passanti, che avevano le mani legate o i polsi assicurati da manette rinforzate. Le donne, bellissime, con le capigliature arruffate dal moto perpetuo degli aliti marini, così familiari, così dolci nella mattina di primavera ubertosa, preludio alla stagione della raccolta, dell’abbondanza, sembravano già sfiorite. Non c’era ancora il caldo matto, indiavolato, il sole spietato dell’estate, che li induceva a spostarsi all’isola di Prinkipo (in turco Büyükada, grande isola) o a Proti (in greco la Prima, in turco Kınalıada isola dell’henné, dal caratteristico colore rosso), dove avevano le case di villeggiatura invidiate dalla borghesia cittadina. Per quell’anno, e per decenni ancora, le dimore estive sarebbero rimaste vuote, abbandonate, oppure occupate dalla milizia, con i cadaveri ammassati alla rinfusa, rigettati sulla risacca dopo un naufragio. Oggi quelle ferite non sono più visibili: la città ha mutato pelle, conservando solo in qualche angolo nascosto quel sapore di tempo sospeso.

Il 24 aprile 1915 aprì un lungo periodo di dolore: morirono più di 1.500.000 cittadini dell’Impero Ottomano a opera della polizia e delle squadre di assassini, solo perché avevano la colpa di essere cristiani, solo perché armeni.

Io ti amo! È solo colpa tua.

Un sonoro schiocco rimbombò sordo nella stanza. Silvia cadde a terra ripiegata su se stessa, mentre con una mano si reggeva la guancia gonfia. La pelle era diventata tutta rossa e l’anima bruciava di paura e di frustrazione. Lacrime silenziose le solcavano il viso, lenendo, con la loro innocenza, la parte offesa.

La presenza dell’uomo incombeva cupa come una cappa su di lei. Sapeva che era solo l’inizio, che lui non si sarebbe fermato.

Quello schiaffo, gesto vile e codardo, era solo il preludio a una sinfonia ben peggiore. Non era la prima volta, ormai era diventata storia quotidiana. Ma ogni volta era peggio, ogni volta diventava più violento. La donna era consapevole di sottoporsi a un’agonia.

Era iniziata poco dopo che erano andati a vivere insieme. Il mostro aveva ben presto calato la maschera, rivelando il suo vero essere. Eppure all’inizio sembrava dolce e premuroso. Lei si era innamorata perdutamente …

All’inizio si trattava di piccoli sfoghi verbali. La tensione, il lavoro, la casa … problemi che creavano nervosismo. Ma una buona compagna doveva saper capire il suo uomo, lo doveva supportare e, soprattutto, perdonare. Ogni volta i suoi sfoghi diventavano meno verbali e più fisici. Un giorno lei dovette mentire anche al poliziotto del pronto soccorso, dicendo che era caduta dalle scale, per non farlo arrestare.

Passerà … si ripeteva.

Ma non era più passato …

La donna alzò lo sguardo per vedere in faccia la persona in nome della quale si era completamente annientata. Era lì che l’osservava con un martello in mano. I suoi occhi erano fissi, le pupille dilatate. L’iride era sparita lasciando il posto a due buchi neri turbinanti di ira. Il volto era reso deforme da una smorfia indescrivibile.

Lei avrebbe voluto urlare, chiedere aiuto, far finire tutto. Ma non ne ebbe il coraggio, perché, paradossalmente, amava ancora quell’uomo. Se solo avesse avuto il coraggio di capirlo e fermarlo prima … Ma l’amore, o meglio l’illusione dell’amore, porta a fare cose folli. Induce al silenzio.

Silvia non trovò mai il coraggio di far arrestare il suo carnefice, perché l’unica cosa che desiderava era solo essere amata da lui.

Calò la testa in segno di resa, voleva solo che tutto finisse. I capelli le coprirono il viso, evitandole di continuare a vedere quegli occhi iniettati di ira. Lacrime copiose bagnarono il pavimento. Silvia non sentì nulla, percepì solo lo spostamento nell’aria della mano che calò violenta su di lei. Un rumore simile a un uovo che si rompe e poi il silenzio …

Anch’io a scola!

Alle sette e due minuti del martedì mattina del sette maggio giungiamo sul piazzale del grande campo sosta di Castel Romano, all’estrema periferia sud di Roma. Il termine ‘sosta’ è un eufemismo, che emana puzza di ipocrisia burocratica, infatti sta a dire che è istituzionalizzato, in parte per via legale, in parte per via amministrativa, in pratica una questione problematica, più volte rimossa dalle varie gestioni politiche. Non riuscendo a trovare soluzione a una realtà così complessa, si è finito per accorpare un insediamento, e con l’idea di depotenziare il potenziale deleterio, lo si è lasciato come un dinosauro arenato, fossilizzato al km 24 di una via ad alto scorrimento. La zona nei paraggi, è deserta. Gli unici rumori provengono dai tir e dalle auto, che sfrecciano veloci sull’antistante strada provinciale, la Pontina, croce dei pendolari, obbligati a una routine quotidiana da incubo e delizia dei gitanti delle feste comandate, che si ingorgano allegramente, nei week end, verso le spiagge del litorale. Lasciando libero lo sguardo si nota che il campo sembra sterminato. Chi lo frequenta con maggiore assiduità spiega che è tanto grande da imporre all’amministrazione comunale la divisione in vari sotto-campi. Ovviamente si tratta di una convenzione fittizia: di fatto il sistema-campo è unico, sterminato e abbandonato, e le dinamiche di incuria e lassismo si ripercuotono su tutto l’enorme corpo, gigantesco e inerte.

Nell’aria si avverte l’odore pesante d’immondizia misto all’aroma petrolifero, proveniente da grandi vasche di metallo, poggiati a terra, nelle quali vengono accesi falò, per riscaldarsi e fare luce di notte. Siamo arrivati tutti: ci accompagnano un mediatore culturale, ovvero un Rom, che è riuscito ad abbandonare questo luogo, trovando una sistemazione più dignitosa e che ora cerca di aiutare gli amici a fare altrettanto, e un medico preposto a stilare i certificati di riammissione a scuola. A Roma, purtroppo, ci sono ancora bambini che non vanno a scuola, perché non riescono ad ottenere un certificato medico. Ci dividiamo in coppie. Il compito sembra banale, ma di fatto è impegnativo: si tratta di andare di baracca in baracca a bussare per svegliare gli scolari prima che arrivino i minibus del servizio scuola. Molti bambini, nell’abbandono generale, non si svegliano in tempo e non riescono a raggiungere i pulmini. Un attimo di ritardo significa pregiudicare il giorno di scuola, in quanto il luogo dove si trova l’edificio è troppo lontano dalla città per poterlo raggiungere con i mezzi o a piedi. Dopo più di cinque giorni d’assenza, senza un medico pronto a scrivere il certificato di riammissione, non si può riprendere la frequenza. Si dovrebbe comprendere il senso di sicurezza che deriva dalle norme dell’ordinamento scolastico. Ma sinceramente non è facile, perché appaiono illogiche e tese a emarginare. Se un bambino non è in buona salute è preferibile che resti a casa,  a curarsi. Se non riesce, però, a recuperare il fatidico foglietto del medico, il cancello mitico e un po’ sinistro della scuola rimane sbarrato. Forse alcuni bambini sono propensi a pensare che si tratti di una provvidenziale scusa per protrarre le vacanze tutto l’anno, ma senza scuola la vita diventa un dramma. Non solo perché non si ha la possibilità di apprendere e di relazionarsi con gli altri bambini, ma anche perché, in maniera incolpevole e inconsapevole, si rimane segnati a vita dal marchio della diversità. Se un bambino, nell’età giusta, resta estraneo ai ritmi e ai codici del vivere comune, rimane indietro, non riesce a stare al passo con gli altri. Una volta segnato dallo stigma del diverso verrà pensato come difficile, iperattivo, caratteriale. La realtà è molto più semplice: non ha avuto modo di andare a scuola, di imparare, di stare insieme agli altri. Si può accettare che ci siano ancora bambini che non vanno a scuola? Il problema interessa poco le persone e le istituzioni, pressate dagli assilli quotidiani, deresponsabilizzati o semplicemente scoraggiati dalle proporzioni del fenomeno. Le scuole fanno giornalmente l’appello dei presenti e ogni mese inviano le liste delle presenze al Ministero competente. Nessuno si premura di capire il motivo per cui centinaia di bambini non assolvono l’obbligo scolastico. Noi, martedì 7 maggio, ci aggiriamo per il campo alla ricerca delle baracche con i bambini da svegliare. Abbiamo come guida una lista, compilata unendo vari elenchi tratti dalle scuole e dal Ministero. Un computo dettagliato, che già dalla prima verifica risulta pieno di lacune. Bambini non iscritti, o peggio ancora, inseriti in scuole poste all’altro capo di Roma. Più mi inoltro nel campo e più lo scoramento mi assale. Il terreno è pieno di detriti e rifiuti. Vetri rotti, calcinacci, immondizia … ovunque regna l’abbandono. Passiamo di fronte a una baracca andata a fuoco, a causa della stufa a gas accesa nelle notti d’inverno per stemperare il freddo pungente della campagna romana, desolata e dominata dal permissivismo edilizio. Ora il nucleo familiare che vi trovava riparo si è trasferito da parenti prossimi, sovraffollando ancor di più un’altra baracca. I ratti sono così grandi da intimorire i cani e pasteggiano beatamente fra l’immondizia. E proprio questi animali, dagli occhi rossi scintillanti, che sembrano spiritati, gonfi sulle zampe posteriori con cui balzellano a zig zag, dimenando le code immonde, sono i custodi della landa. Non sembrano intimoriti dalla nostra vicinanza, al massimo infastiditi … Scene simili le ho sperimentate solo un’altra volta in vita mia. Era la primavera del 1999, ero giovane e con poca esperienza e mi trovavo sulle montagne inospitali dell’estremo nord d’Albania. Si trattava di un campo profughi a Kukës, al confine con il Kosovo. Era in corso una guerra civile e nel territorio dei Balcani la gente, senza speranza, si ammassava sui monti per non perire sotto le bombe. Il campo Rom, invece, si trovava alle porte di una città millenaria molto civile. Tornando a oggi, arriviamo alla prima baracca. La porta di ferro rotta e senza serratura è fermata dall’esterno con una bombola del gas. Bussiamo, ma non risponde nessuno. La ragazza che mi accompagna afferma che in quella baracca vivono completamente sole due sorelle di nove e undici anni. Chiedo, stupito, che fine hanno fatto i genitori. Alza le spalle e mi risponde che non si sa nulla di preciso. Potrebbero trovarsi in prigione o essersene andati. Di fatto due bambine non ancora adolescenti vivono completamente sole in una baracca in un immenso campo Rom. La cosa mi lascia basito, soprattutto perché il pensiero corre, inevitabilmente, a mia figlia di otto anni. Penso a lei, ancora così fragile e bisognosa di protezione e di affetto e rabbrividisco.

Bussiamo ancora, ma non risponde nessuno.

Ci spostiamo alla baracca accanto, dove sembra che viva un loro lontano parente, forse il nonno, per cercare di capire che fine abbiano fatto le due ragazzine. Bussiamo energicamente e, nel frattempo, iniziano a uscire autonomamente dalle baracche i primi bambini. Uno spettacolo rincuorante. Inoltre genitori, più o meno solerti, cominciano anche loro ad affacciarsi, per intraprendere le proprie faccende. Il campo sembra risvegliarsi da un profondo torpore.

All’improvviso da dietro la seconda baracca si palesa un bimbetto di tre o quattro anni al massimo con delle chiavi in mano; scalzo, saltella sull’asfalto ruvido e pieno di detriti come se stesse camminando sulla moquette. Ha capelli biondo oro, arruffati e non lavati da tempo. E’ sporco anche il visetto dalla carnagione chiara. Senza dire una parola si avvicina alla porta e, con le chiavi, la apre. Intanto da dentro qualcuno cerca di aprire con forza la porta, che è così malmessa che non combacia con gli stipiti e si incastra. Si tratta di un uomo sulla cinquantina, dal viso troppo vissuto e la barba lunga, sfatta, con occhi cisposi e sguardo allucinato, forse per il risveglio improvviso.

«Mi scusi:, Vanessa e Linda che fine hanno fatto?» Chiede la ragazza che mi accompagna e che conosce meglio di me il campo e i suoi abitanti. Scopro che l’uomo è il padre dell’angelo scalzo e il nonno delle due ragazzine che stavamo cercando.

«In baracca: perché tu mi sveliare?» Ha l’accento tipico del Rom balcanico e si cimenta nella lingua italiana di chi non è mai andato a scuola e ha appreso, per strada a formulare qualche frase.

«Siamo venuti a svegliarle per andare a scuola, ma non risponde nessuno.» Il tono della mia amica lascia trapelare una certa preoccupazione. Del resto sarebbe impossibile mantenersi tranquilli di fronte a due bambine di nove e undici anni che dormono da sole in una baracca e che hanno come unico sistema di sicurezza una bombola vuota di gas per bloccare la porta.

«Stanno drento! Stare male. Ieri mangiato qualche cosa sbaliato e ora mal di pancia e di testa.»

«Ne è sicuro?» Chiede incalzante la mia amica, sempre più preoccupata.

«Bussa forte ancora, prova!»

Il nonno accarezza i capelli biondi di suo figlio con le mani enormi, callose e sudice. Potrebbe sembrare un uomo truce, ma la diffidenza è giustificabile: non ci siamo mai visti e avrebbe più ragioni lui, in qualità di parente, di dubitare delle nostre intenzioni.

La rudezza della vita avrà scavato segni nel corpo (ha forse poco meno di cinquant’anni, ma sembra decrepito) e nell’ethos, ma sarebbe corretto valutare altri aspetti della sua vita. Pensare alla sua infanzia, presumibilmente vagabonda, seppure trascorsa nel contesto abbastanza garantito della Jugoslavia titoista, la poca confidenza con le istituzioni, specialmente con le scuole. Avrà avuto, forse, un’adolescenza turbolenta, ma libera e felice. Si sarà trovato, poi, a vivere la fine del progetto socialista e l’ inizio delle guerre etniche tra Serbi, Croati e Bosgnacchi (i musulmani di Bosnia). I Rom sono dovuti fuggire da una delle loro patrie secolari, colpiti dai fuochi incrociati dell’odio nazionalista, che li rigettava come spuri, opportunisti, infidi, perché non inquadrabili nella visione manichea del noi e del “loro”. Costretti ad allontanarsi dalla Bosnia rurale, dalle tradizioni artigiane, messe in crisi dall’arrivo massiccio della droga sono arrivati in Italia, Francia e Germania (pochi nel nord Europa dove il welfare ha favorito una integrazione più dignitosa), e si sono trovati emarginati nelle lande, brulle delle periferie delle metropoli, indifferenti al loro destino, se non apertamente ostili. Come sognare, o anche solo sperare in un futuro diverso, migliore, quando si è conosciuta solo la parte più dura della vita?

Torniamo alla baracca di Vanessa e Linda martellando la porta. Dopo vari tentativi finalmente si vede muoversi qualcuno che osa affacciarsi dalla finestra sconnessa. Aprono due ragazzine e sembra che stiano bene: forse un po’ stordite dal mal di pancia, ma  non emaciate.

«Noi oggi non andiamo a scola! Stiamo male.»

Dall’aspetto sembra vero e si decide di non insistere. Lasciamo una pomata contro le lendini, uova di pidocchi, tanto temute, con ragione, dalle maestre di ogni istituto di ordine e grado, piaga scolastica e sociale subdola e difficile da arginare.

«Va bene, ma usate almeno la pomata…»

«Certamente!» Trillano contente, rigirando tra le manine il flacone lucido di metallo. Mentre stiamo per procedere, un altro bambino sgattaiola fuori da una stanza della baracca. A giudicare dall’aspetto non avrà più di sei o sette anni. E’ vestito e pronto a mettersi le scarpe. Il suo entusiasmo mi commuove. Ha la voglia di andare a scuola dipinta sul volto e si è preparato da solo, indossando i suoi abiti migliori. Per un bambino Rom gli abiti migliori sono semplicemente i meno sporchi, e il bimbo in questione, infatti, ha un pantaloncino sdrucito e una maglietta stinta di rosso. Il nonno, che nel frattempo ci ha raggiunto, per sapere come stanno le nipoti, dice al piccolo che vestito in quel modo non può andare in giro. In effetti ha ragione, ma il bimbo sembra determinato e, ignorando l’avvertimento, si dirige verso i pulmini del comune di Roma. Il vecchio impreca qualche cosa nella sua lingua e poi torna nella baracca. Ormai sono le sette e trenta: continuiamo il giro alla ricerca di altri bambini da portare a scuola. Fra una baracca e l’altra incontriamo una ragazzina sui dodici anni, che gironzola senza una meta apparente.

«Tu non vai a scuola?» Le chiede la mia amica.

«No, io non iscritta a scola

Altro paradosso della nostra bella città. In uno dei paesi più evoluti e industrializzati del mondo, patria di tanta sapienza ed erudizione, non solo ci sono bambini che non vanno a scuola, ma addirittura molti di loro non sono iscritti …

Torniamo alla piazza dove sostano i pulmini comunali. I bambini sono tanti, molti in fila dal dottore, con i genitori, per ritirare il fatidico certificato medico per la riammissione a scuola. Nonostante ci troviamo in un campo Rom e i bambini con i propri parenti siano tanti, il caos è contenuto, quasi ordinato. Si sale sui pulmini, che aspettano con il motore accesso. I bambini sono tutti seduti, quando vediamo correre un bambino sui sei anni con uno zaino di proporzioni smisurate sulle spalle.

«Anch’io a scola! Anch’io a scola!» Urla, mentre corre, con la paura di non fare in tempo, come se prendere quel pulmino sia la cosa più importante della sua vita. Con un piccolo aiuto da parte nostra arriva in tempo e salta su come il migliore degli atleti, con il bellissimo sorriso sdentato stampato sul volto, felice di poter andare a scuola. Finalmente si parte!

Uno a uno, alle otto meno due, i sei pulmini dell’amministrazione comunale imboccano ordinatamente la via Pontina, eternamente intasata d traffico e si dirigono verso la metropoli tentacolare …

Diego Romeo | Autore

Un Natale veramente particolare

Stefano era felice!

Per la verità non ricordava più da quanto tempo non era stato così felice. Ma la cosa che lo sconvolgeva di più era il fatto che tutta questa felicità provenisse da un “banalissimo” pranzo di Natale. Sì un normale pranzo di natale come se ne fanno tutti gli anni… o forse no?

Sì perché Stefano non si trovava ad un normale pranzo di Natale fra parenti a casa di qualche lontana zia.

No!

Lui si trovava in una chiesa, una Basilica per la precisione, in compagnia di ogni genere di poveraccio. Anziani, stranieri, Rom, senza fissa dimora e persino disabili! Tutti insieme, seduti ai tanti tavoli che riempivano all’inverosimile quella grande Basilica, a festeggiare il Natale, una festa che lui aveva sempre snobbato. C’era da dire che Stefano quel Natale un po’ “barbone” lo sembrava: con la crisi, lui che era stato un affermato broker di successo, era finito sul lastrico e senza più soldi ed amici si era lasciato andare. Tanto che quando quel volontario della Comunità di Sant’Egidio l’aveva visto girovagare per le vie di Trastevere, tutto solo, sporco e trasandato, non aveva potuto fare a meno di fermarlo per chiedergli come stesse e se avesse bisogno di qualche cosa, scambiandolo per un “barbone”.

Dopo il primo imbarazzo, dovuto al comprensivo equivoco, quel volontario che si chiamava Luca, e che era accompagnato da un grosso giovane disabile che non faceva altro che ripetere “Alla Grande!!! Andiamo al pranzo di Natale, io sto al tavolo con Luca”, sotto la spinta incessante del suo amico decise di invitarlo a quel famoso pranzo.

Certo ci volle un bel po’ prima che Stefano accettasse, ma del resto il giovane disabile non sembrava voler cedere. È così che alla fine si ritrovò seduto a tavola fra Rom e stranieri, due delle “categorie” che lui più detestava. Eppure dopo poco, fu travolto da uno Spirito d’amicizia che non aveva mai provato e ciò che fino a quel momento gli era stato amaro divenne dolce, rendendolo felice come non lo era mai stato prima.

Diego Romeo | Autore

L’ascesa del fabbro

Diego Romeo | Autore

Come il pepe per la gricia

Per Dario era ormai una tradizione quel pranzo di Natale, iniziata quell’anno di crisi, in cui a Corviale la povertà regnava e lui, come tutti, si era ritrovato senza nulla.

Quell’anno aveva solo del guanciale di Grisciano per festeggiare, ma per una strana coincidenza, i suoi vicini erano rimasti chi con un po’ di pasta, chi con del pecorino romano e chi con il pepe nero. Fu tutt’uno, si preparò subito una fantastica gricia per tutti.

«Come fai a rendere questo piatto così squisito?»

«Come per il guanciale il segreto è il pepe, per la gricia il segreto è l’amicizia!»

Il giorno più bello

“Il giorno più bello” è un mio racconto che ha vinto il terzo premio al concorso Alberoandronico 2018 e la menzione d’onore al concorso Voci 2018.

Buona lettura!

***

Il giorno più bello!

«Nabila! Nabila, vieni subito in casa, tuo padre ti vuole parlare!».

Mi voltai di scatto verso l’ingresso di casa mia. Sull’uscio della nostra capanna, vidi mia madre, vestita con gli abiti tradizionali yemeniti, come si conviene a una moglie devota, che sulle punte dei piedi si guardava introno per vedere dove fossi finita. D’istinto, strinsi forte al mio petto Dudù, il mio unico giocatolo, un pupazzo di pezza con il corpo costituito da un quadrato di stoffa con le zampine e la coda cucite assieme e la testa di cagnolino addormentato, illudendomi di trovare un conforto che sapevo bene non sarebbe mai arrivato. Infatti, ormai avevo capito fin troppo bene che, ogni volta che un grande mi cercava, non erano mai delle belle cose.

Quell’unico giocatolo mi era stato regalato qualche anno prima da una donna italiana di nome Elena, che faceva parte di una missione umanitaria, che aveva portato viveri e medicinali nel nostro piccolo villaggio sperduto fra le montagne dello Yemen. Quella donna mi era stata da subito molto simpatica, con i suoi modi affettuosi e quella premura così delicata che neanche mia madre aveva mai avuto per me. Mi aveva regalato quel pupazzo di pezza che era stato suo, affinché proteggesse i miei sogni, almeno era quello che mi aveva detto. Purtroppo, però, quella donna e i suoi amici furono costretti a lasciare quasi subito il nostro villaggio. Non so per quale motivo, ma ai nostri anziani quelle persone straniere non risultarono molto simpatiche e alla fine aizzarono gli adulti contro di loro, costringendoli letteralmente a scappare da un giorno all’altro. Chiesi spiegazioni a mia madre, la quale mi liquidò dicendomi che non erano questioni per una bambina di otto anni. Così, incassai quel rimproverò da mia madre e decisi di non tornare più sulla questione.

«Nabila, che fai? Tua madre ti chiama!».

La voce gentile della mia amica Hoda mi fece trasalire, risvegliandomi dai miei pensieri. La guardai spaesata cercando di capire cosa dovessi fare.

«Nabila, mi ascolti? Perché non vai? Non far arrabbiare tua madre».

«Non voglio andare!», fu tutto quello che riuscii a dire.

«Perché? Tua madre ti cerca». Fu la risposta allibita di Hoda.

«Non lo so il perché, ma quando mio padre mi cerca non è mai per una cosa buona e io ho paura».

«Nabila, non fare la sciocca. Se non vai, tuo padre si arrabbierà e ti picchierà di certo».

La guardai rassegnata. Hoda aveva ragione: se non avessi risposto alla chiamata di mio padre, sarei stata picchiata duramente, mentre, se avessi risposto, forse, me la sarei cavata con solo un rimprovero. Feci un cenno d’assenso con la testa e lentamente mi diressi verso la mia capanna. Appena mia madre vi vide, corse istericamente verso di me, mi afferrò, stringendo le sue grandi mani sulle mie braccia e scuotendomi nervosamente.

«Bambina disubbidiente, ma che fine hai fatto? Tuo padre ti sta cercando e non è rispettoso verso di lui farlo aspettare. Verrai punita per questo, ma ora sbrighiamoci che c’è un ospite importante e non dobbiamo fare brutta figura».

Guardai la mamma con distacco, sapendo già che da lì a breve sarei stata picchiata per la mia disubbidienza. Nonostante ciò, la mia curiosità ebbe il sopravvento sul buon senso e osai chiedere: «Mamma, ma chi è l’ospite che abbiamo?». Lei si irrigidì di colpo e mi squadrò con occhi severi, non feci in tempo a metabolizzare quello sguardo, che la mia guancia iniziò a bruciare ferocemente per uno schiaffo.

«Nabila, te lo dico ora e poi basta. Tu non devi dire nulla, non fare domande e cerca solo di essere affabile. Se farai una buona impressione al nostro ospite, ne guadagneremo tutti; in caso contrario, l’ira di tuo padre sarà tremenda. Cerca, quindi, di fare la brava e di risultare simpatica al nostro ospite».

«Va bene, mamma!», non riuscii a dire altro.

Entrammo nella nostra umile capanna. La mia famiglia non era fra le più ricche del paese, al contrario, era fra quelle più povere. La mia casa era costituita da un grosso ambiente, dove mangiavamo, cucinavamo e dove dormivamo noi bambini, tutti insieme, su un tappeto ormai liso. I miei genitori, invece, dormivano in una stanza separata, dove c’era un materasso per terra, sul quale c’erano dei cuscini. Ci lavavamo al pozzo del paese e i bisogni si facevano in campagna. Io avevo altri otto fratelli, tutti più grandi di me, tre dei quali , tutti i maschi, si erano sposati ed erano andati via, mentre io ero rimasta con tre sorelle e un altro maschio con cui condividevo la casa, le botte e il cibo.

In quello che si poteva definire il solone della nostra casa, erano seduti per terra, su dei tappetti tenuti per le grandi occasioni, intorno a un tavolino con sopra un set da the in ottone, mio padre e una persona anziana, che doveva essere l’ospite di riguardo di cui parlava mia madre. Non l’avevo mai visto, non era del nostro villaggio e subito mi fece una brutta impressione. Mi squadrò da cima a fondo con i suoi occhi rugosi, in un modo in cui nessuno mi aveva mai guardato. Non so bene perché, ma quello sguardo mi fece trasalire, facendomi percepire una strana sensazione di disagio, proprio all’altezza dello stomaco. Il profumo di the alla menta e pistacchi aveva riempito l’ambiente, un odore strano per casa mia, dove certe prelibatezze non erano proprio di casa. Se i miei avevano tirato fuori i tappeti migliori, il set d’ottone per il the e comprato the alla menta e pistacchi, voleva dire che quell’uomo era veramente, ma veramente importante.

Mia madre mi diede una leggera spinta sulla schiena per farmi avvicinare di più al tavolino, poi lei si sedette e versò altro the nella tazza dell’ospite. Io, ovviamente, rimasi in piedi accanto agli adulti, perché a noi bambini non era permesso sederci con loro. L’uomo continuò a scrutarmi con invadenza, mentre mio padre rimaneva in silenzio, fissando l’ospite e aspettando qualche cosa che non avevo ben compreso. Il mio imbarazzo crebbe a dismisura, iniziai a guardarmi le punte dei piedi pur di non incrociare quegli occhi rugosi che mi guardavano famelici. Mi attorcigliavo le dita delle mani, pregando che quel supplizio terminasse presto.

«È troppo magra!», esclamò l’ospite a un certo punto, facendo sussultare mio padre e mia madre.

I miei genitori si guardarono preoccupati, quasi sull’orlo di una crisi di panico. Poi, mia madre intervenne.

«A quello possiamo porre rimedio noi, eccellenza! Ma guardi quanto è carina! Ha un visino delizioso e due occhi verdi che sono una vera rarità dalle nostre parti. Poi, è forte: non si è mai ammalata fino a oggi. Vero, Nabila?».

Feci un cenno d’assenso con la testa, non capendo che cosa volesse quell’uomo da me, né tanto meno perché mia madre fosse così agitata. Intanto, avevo visto le mani di mio padre serrarsi a pugno, in un gesto che mi fece tremare dalla paura.

«Può darsi, ma di certo non vi posso dare la somma richiesta! È piccola e magra e per il matrimonio, di certo, non potrà cambiare tanto».

Matrimonio? Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando, il matrimonio di chi? E poi, soprattutto, con chi? Una serie di domande iniziarono ad affollare la mia mente, domande a cui non riuscivo a trovare delle risposte sensate.

«Non dica così, esimio Khalid, non offenda la mia casa. Vedrà che, per quella data, le farò trovare una sposa alla sua altezza».

Ci fu un attimo di silenzio in cui capii che stavo per essere venduta a quel signore anziano, per diventare la sua nuova sposa. Un’usanza diffusa nel mio paese e, in particolare, nei villaggi che affastellavano le montagne della regione dell’entroterra. Con molta probabilità, poi, quel vecchio signore aveva già due o addirittura tre altre mogli, molto più grandi di me.

L’ospite mi fissò ancora per qualche secondo, accarezzandosi la lunga barba bianca, con le sue dita callose dure come il cuoio, cercando di valutare meglio l’affare che stava per concludere. Il suo viso, arso dal sole spietato dello Yemen, era pieno di solchi lasciati dallo scorrere inesorabile del tempo, che gli conferivano un’espressione arcigna, quasi malevola. Più lo guardavo e più il mio corpo tremava dalla paura.

«E sia! Ma non vi posso dare più di cinquecentomila Riyal. Questa è la mia ultima offerta, prendere o lasciare». Il suo tono era quello di chi non accettava repliche. Vidi mio padre calare il viso in segno di sconfitta, evidentemente, sperava in qualcosa di più, mentre mia madre si portò la mano alla bocca cercando di reprimere un singhiozzo di pianto. La mia poca esperienza mi disse che quella sera non sarei arrivata a coricarmi indenne.

«Ovviamente, la voglio ingrassata per la data del nostro matrimonio e questo sarà tutto a spese vostre. Non ho intenzione di sposarmi con un fuscello che non reggerebbe neanche la prima notte di nozze».

Mio padre mi lanciò uno sguardo carico di rabbia e frustrazione, come se fossi io la causa di tutti i mali della famiglia. Se avesse potuto, ero sicura, mi avrebbe massacrato di botte in quel preciso istante.

«Va benissimo, esimio Khalid, sarà fatto come vuole lei, noi siamo solo suoi umili servitori».

«Benissimo! Sapevo che eravate persone di parola. Alla fine della celebrazione del matrimonio, riceverete quanto vi spetta. Mi raccomando: non voglio aspettare troppo, cercate di organizzare il tutto il prima possibile».

Detto ciò, l’anziano signore, bevve un ultimo sorso di the, afferrò una manciata di pistacchi e uscì dalla nostra cosa sotto il mio sguardo attonito. L’ospite non fece in tempo a oltrepassare l’uscio della porta che una violenta botta mi colpì all’altezza dell’addome, scaraventandomi a terra senza fiato. Come una furia, mio padre si avventò su di me, iniziando a scaricare la sua rabbia.

«Brutta sgualdrina, hai gettato l’imbarazzo sulla nostra famiglia. Hai rischiato che Khalid non ti volesse più, fai schifo! Sei troppo magra! Io te l’ho sempre detto di mangiare di più!».

Io mi coprivo la testa e il volto con le braccia, mentre mio padre, seduto sopra di me, infieriva e inveiva contro di me. Sentivo la mia pelle arroventarsi sotto i suoi colpi, sempre più violenti. Per fortuna, dopo un po’ il mio corpo si abituò al dolore e io iniziai a sentirne meno. Piangevo in silenzio, perché avevo capito, ormai da tempo, che il rumore assordante delle lacrime avrebbe contribuito solo a peggiorare la reazione di mio padre. L’unica cosa che disse mia madre, mentre piangeva in un angolo della nostra casa, non per il mio pestaggio ma per la vergogna, era quella di non colpirmi il volto per non rischiare di sfigurarmi e di peggiorare le cose. Dopo un tempo che parve infinito, la furia di mio padre cessò, lasciandomi quasi esanime sul pavimento.

«Samara pensaci tu a questa sgualdrina, io non la voglio più vedere. Fai in modo che sia più grassa per il matrimonio e sia tutto in perfetto ordine come vuole Khalid. Intesi?».

Mia madre non disse nulla, smise di piangere e fece un senso d’assenso con la testa, infine, mi guardò incredula per quello che avevo fatto, lasciandomi quasi svenuta sul pavimento arido della casa.

*

La cerimonia di nozze fu molto sfarzosa. Io ero vestita con un abito tradizionale yemenita, tessuto su misura, in seta color porpora. Avevo anche dei gioielli, dono del mio futuro marito. Mia madre mi disse, mentre mi preparava al grande giorno: «Questo sarà il giorno più bello della tua vita». Volevo ribattere che sicuramente sarebbe stato un buon giorno per loro, non di certo per me, ma la spalla, ancora dolorante dopo lo sfogo di mio padre, mi suggerì di tenere la bocca chiusa.

Erano passati due mesi dalla prima e ultima volta che vidi Khalid. Di certo, non si poteva dire che lo conoscessi bene, ma anche questo era normale dalle mie parti e sicuramente non era la mia preoccupazione più grande, almeno per il momento. Due mesi tremendi, in cui mia madre mi forzò a mangiare di tutto, fino alla nausea, pur di farmi prendere peso. Per fortuna, alla fine, riuscii a prendere qualche chilo e a superare la prova di quello che sarebbe divenuto, da lì a poco, mio marito. Mio padre non mi guardò per tutta la cerimonia, né tanto meno mi rivolse la parola, mi evitò anche durante la festa offerta da Khalid per le nostre nozze. Solo alla fine, poco prima di ritornare al loro villaggio, si avvicinò a me e guardandomi con disprezzo disse: «Mi raccomando, questa notte non fare la stupida e vedi di non farti ripudiare. Fai la brava moglie e cerca di soddisfare tutti i desideri di tuo marito. Altrimenti, la prima pietra con cui ti lapideremo sarà la mia». Detto questo, se ne andò senza aggiungere altro. Lo guardai allontanarsi da me con la consapevolezza che non l’avrei più rivisto, ma questo stranamente mi portò solo un po’ di sollievo.

Mentre vedevo i miei parenti e amici abbandonare la sala del banchetto, strinsi la mia mano forte al petto, dove avevo legato, sotto il vestito, il mio Dudù. La mia bambola di pezza era l’unica cosa che riusciva a confortarmi in quei momenti. Più passavano i minuti e più mi sentivo sola e abbandonata in un mondo che non era il mio. Alla fine della giornata, quando il sole era ormai basso e in casa non era rimasto più nessuno, se non io e quello che era da poco divenuto mio marito, l’angoscia salì in maniera vertiginosa. Mi guardavo attorno cercando di capire che dovessi fare e, soprattutto, cosa intendeva mio padre con la strana frase che mi aveva detto prima di andare via. Non avevo minimamente idea di come soddisfare mio marito, giacché avevo solo otto anni e non sapevo neanche cucinare. Veramente non riuscivo a capire cosa dovesse fare una brava moglie. Di certo, non gli potevo chiedere di giocare con me!

Mentre mi ponevo queste domande, vidi Khalid avvicinarsi a me con un’espressione strana dipinta sul suo volto rugoso. Si sedette accanto a me e a quel punto potei sentire tutto il disagio che il suo sguardo mi provocava. Lo vedevo osservare insistentemente ogni centimetro del mio corpo, l’aveva fatto anche la prima volta che c’eravamo conosciuti a casa mia, ma questa volta era diverso, sicuramente peggio, perché eravamo solo lui e io. Mi sentii violare nell’anima, oltre che nel corpo. Il mio viso avvampò dall’imbarazzo: era come se fossi nuda davanti a un estraneo e non riuscivo a capire il perché; era una sensazione strana, mai provata prima. Quando successe a casa mia, ebbi la sensazione di essere in qualche modo protetta, come se ci fosse una barriera fra noi due, che lui non poteva oltrepassare, neanche con lo sguardo. Ora, invece, mi sentivo totalmente sguarnita e in sua balia. La mia mente mi urlava di stare attenta e di avere paura, il motivo, però, non riuscivo proprio a comprenderlo. Quando, poi, la sua mano si posò sulla mia spalla, un fremito di puro terrore mi fece letteralmente sobbalzare. Non avevo mai provato una paura simile, c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello che stava succedendo, qualcosa di sporco. Il mio corpo tremava convulsamente.

Poi, in un secondo, senza che me ne accorgessi, Khalid mi spinse a terra. Fui presa dal panico!

«No!», gridai d’impulso.

La sua risposta fu solo uno schiaffo, che mi lacerò le labbra e la pelle della guancia. Mi guardò negli occhi per qualche secondo, contrariato dalla mia risposta; il suo alito sapeva di acido e di sporco. Trascorsero attimi di panico, in cui mi portai la mano al petto per stringere convulsamente il mio Dudù.

«Tu ora mi appartieni. Ricordatelo!», sussurrò malevolo.

Quando, poi, ebbe capito di avermi sottomessa e che non avrei più opposto resistenza, infilò la sua mano callosa sotto la gonna del vestito e, con uno scatto, mi strappò via la parte della sottana che mi copriva il ventre. Sgranai gli occhi per l’angoscia, la mia mente andò in tilt, mentre violenti spasmi mi scuotevano il torace. Volevo gridare, volevo scappare, mi irrigidii d’istinto con il corpo, con la conseguenza che Khalid serrò la presa sulla mia spalla, fino a quasi lussarmela. Con l’altra mano, si calò i pantaloni della sua tunica tradizionale e poi me la mise sulla bocca per non farmi gridare. La sua enorme mano mi copriva la bocca e il naso, impedendomi quasi di respirare. Annaspavo alla ricerca d’ossigeno, mentre le mie narici furono inondate di un odore di polvere e tabacco, così forte da quasi farmi perdere i sensi. Per un momento, sperai anche che ciò accadesse per non vivere più coscientemente quel terrore incomprensibile che nasceva nel mio ventre e si propagava per tutto il corpo. Sfortunatamente, questo non accadde e rimasi lucida per tutto il tempo. Il mio cuore galoppava come un cavallo impazzito.

Khalid si mise sopra di me, mentre mi teneva a terra con un mano e con l’altra mi tappava la bocca per non farmi urlare. Mi sovrastava spavaldo e indifferente di quello che stavo provando, poi, appoggiò il suo ventre sul mio, a quel punto seppi che non avrei avuto più scampo. Una cosa troppo grossa e dura, di cui non sapevo nemmeno l’esistenza, cercò di violarmi il ventre. Istintivamente contrassi la pancia cercando di opporre resistenza: quello fu un grande errore, perché Khalid lo prese come una sfida e, con un sorriso di trionfo, impresse una forza devastante a quella parte del suo corpo, penetrando dentro di me con estrema violenza.

Mi lacerò!

Sentii il mio ventre cedere di colpo e strapparsi come un foglio di carta. Il dolore fu lancinante, così forte che non riuscii a emettere neanche un gemito. Mi inarcai per gli spasmi, mentre lui continuava a penetrarmi, violando sia il corpo che l’anima. Dopo un po’, non sentii più nulla, se non il fuoriuscire di un liquido denso e caldo dalla parte bassa del mio corpo. Non riuscii a vedere cosa fosse, ma più ne perdevo, più mi sentivo debole, come se quello fosse la mia anima che lasciava il mio corpo. Con la mano libera strinsi sempre di più Dudù che, fedele e coraggioso, era rimasto tutto il tempo legato al mio petto, cercando di difendermi dal male. Sfinita e rassegnata, voltai il viso da un lato, cercando di togliermi la sua mano dalla bocca e cercando di respirare un po’ di aria pulita. Ormai senza forze, non opposi più la minima resistenza, sentendo che il mio corpo si era afflosciato, sciolto come burro al sole. A quel punto, Khalid allentò la presa, permettendomi di portare anche l’altra mano al mio petto; ormai aveva capito che ero completamente sua.

Continuò a penetrarmi per un periodo che mi parve infinito, mentre sentivo sempre di più quel liquido viscoso uscirmi dal ventre. Avrei voluto dirgli di smettere per vedere cosa fosse, per chiedergli aiuto perché mi sentivo venir meno, ma lui era totalmente rapito in un’espressione grottesca di piacere, che non ne ebbi né il coraggio né la forza. Alla fine, in uno spasmo incontrollato, si arrestò inarcando la schiena ed emettendo uno strano rumore gutturale. Rimase così per qualche secondo, dopo di che si scostò da me, senza degnarmi di uno sguardo. Mentre si alzava, vidi che aveva il suo ventre sporco di sangue, ma non riuscii a capire di chi fosse. Poi, mi sferrò un calcio e imprecò.

«Maledetta puttana! Io l’avevo detto che eri troppo magra e che non avresti retto la prima notte di nozze. Guarda che casino hai combinato … Mi hai imbrattato tutto con il tuo lurido sangue!».

Con il mio sangue? Ma io non sentivo più dolore, com’era possibile che fosse il mio? Mi portai una mano in mezzo alle gambe, mentre con l’altra stringevo ancora forte Dudù al mio petto, poi me la portai davanti gli occhi e constatai che, effettivamente, era sporca di sangue caldo. Avrei voluto chiedere aiuto, magari avrei anche voluto piangere, ma ero troppo debole e stanca per fare tutto ciò, sentivo le mie forze scorrere via sempre più velocemente insieme al mio sangue. Avevo solo sonno, tanto sonno, quindi feci l’unica cosa che mi andava di fare…

Chiusi gli occhi e, ormai sfinita, mi addormentai per l’ultima volta, sicura di avere ancora con me il mio fedele amico di stoffa, legato saldamente al mio petto.