Il giorno più bello

“Il giorno più bello” è un mio racconto che ha vinto il terzo premio al concorso Alberoandronico 2018 e la menzione d’onore al concorso Voci 2018.

Buona lettura!

***

Il giorno più bello!

«Nabila! Nabila, vieni subito in casa, tuo padre ti vuole parlare!».

Mi voltai di scatto verso l’ingresso di casa mia. Sull’uscio della nostra capanna, vidi mia madre, vestita con gli abiti tradizionali yemeniti, come si conviene a una moglie devota, che sulle punte dei piedi si guardava introno per vedere dove fossi finita. D’istinto, strinsi forte al mio petto Dudù, il mio unico giocatolo, un pupazzo di pezza con il corpo costituito da un quadrato di stoffa con le zampine e la coda cucite assieme e la testa di cagnolino addormentato, illudendomi di trovare un conforto che sapevo bene non sarebbe mai arrivato. Infatti, ormai avevo capito fin troppo bene che, ogni volta che un grande mi cercava, non erano mai delle belle cose.

Quell’unico giocatolo mi era stato regalato qualche anno prima da una donna italiana di nome Elena, che faceva parte di una missione umanitaria, che aveva portato viveri e medicinali nel nostro piccolo villaggio sperduto fra le montagne dello Yemen. Quella donna mi era stata da subito molto simpatica, con i suoi modi affettuosi e quella premura così delicata che neanche mia madre aveva mai avuto per me. Mi aveva regalato quel pupazzo di pezza che era stato suo, affinché proteggesse i miei sogni, almeno era quello che mi aveva detto. Purtroppo, però, quella donna e i suoi amici furono costretti a lasciare quasi subito il nostro villaggio. Non so per quale motivo, ma ai nostri anziani quelle persone straniere non risultarono molto simpatiche e alla fine aizzarono gli adulti contro di loro, costringendoli letteralmente a scappare da un giorno all’altro. Chiesi spiegazioni a mia madre, la quale mi liquidò dicendomi che non erano questioni per una bambina di otto anni. Così, incassai quel rimproverò da mia madre e decisi di non tornare più sulla questione.

«Nabila, che fai? Tua madre ti chiama!».

La voce gentile della mia amica Hoda mi fece trasalire, risvegliandomi dai miei pensieri. La guardai spaesata cercando di capire cosa dovessi fare.

«Nabila, mi ascolti? Perché non vai? Non far arrabbiare tua madre».

«Non voglio andare!», fu tutto quello che riuscii a dire.

«Perché? Tua madre ti cerca». Fu la risposta allibita di Hoda.

«Non lo so il perché, ma quando mio padre mi cerca non è mai per una cosa buona e io ho paura».

«Nabila, non fare la sciocca. Se non vai, tuo padre si arrabbierà e ti picchierà di certo».

La guardai rassegnata. Hoda aveva ragione: se non avessi risposto alla chiamata di mio padre, sarei stata picchiata duramente, mentre, se avessi risposto, forse, me la sarei cavata con solo un rimprovero. Feci un cenno d’assenso con la testa e lentamente mi diressi verso la mia capanna. Appena mia madre vi vide, corse istericamente verso di me, mi afferrò, stringendo le sue grandi mani sulle mie braccia e scuotendomi nervosamente.

«Bambina disubbidiente, ma che fine hai fatto? Tuo padre ti sta cercando e non è rispettoso verso di lui farlo aspettare. Verrai punita per questo, ma ora sbrighiamoci che c’è un ospite importante e non dobbiamo fare brutta figura».

Guardai la mamma con distacco, sapendo già che da lì a breve sarei stata picchiata per la mia disubbidienza. Nonostante ciò, la mia curiosità ebbe il sopravvento sul buon senso e osai chiedere: «Mamma, ma chi è l’ospite che abbiamo?». Lei si irrigidì di colpo e mi squadrò con occhi severi, non feci in tempo a metabolizzare quello sguardo, che la mia guancia iniziò a bruciare ferocemente per uno schiaffo.

«Nabila, te lo dico ora e poi basta. Tu non devi dire nulla, non fare domande e cerca solo di essere affabile. Se farai una buona impressione al nostro ospite, ne guadagneremo tutti; in caso contrario, l’ira di tuo padre sarà tremenda. Cerca, quindi, di fare la brava e di risultare simpatica al nostro ospite».

«Va bene, mamma!», non riuscii a dire altro.

Entrammo nella nostra umile capanna. La mia famiglia non era fra le più ricche del paese, al contrario, era fra quelle più povere. La mia casa era costituita da un grosso ambiente, dove mangiavamo, cucinavamo e dove dormivamo noi bambini, tutti insieme, su un tappeto ormai liso. I miei genitori, invece, dormivano in una stanza separata, dove c’era un materasso per terra, sul quale c’erano dei cuscini. Ci lavavamo al pozzo del paese e i bisogni si facevano in campagna. Io avevo altri otto fratelli, tutti più grandi di me, tre dei quali , tutti i maschi, si erano sposati ed erano andati via, mentre io ero rimasta con tre sorelle e un altro maschio con cui condividevo la casa, le botte e il cibo.

In quello che si poteva definire il solone della nostra casa, erano seduti per terra, su dei tappetti tenuti per le grandi occasioni, intorno a un tavolino con sopra un set da the in ottone, mio padre e una persona anziana, che doveva essere l’ospite di riguardo di cui parlava mia madre. Non l’avevo mai visto, non era del nostro villaggio e subito mi fece una brutta impressione. Mi squadrò da cima a fondo con i suoi occhi rugosi, in un modo in cui nessuno mi aveva mai guardato. Non so bene perché, ma quello sguardo mi fece trasalire, facendomi percepire una strana sensazione di disagio, proprio all’altezza dello stomaco. Il profumo di the alla menta e pistacchi aveva riempito l’ambiente, un odore strano per casa mia, dove certe prelibatezze non erano proprio di casa. Se i miei avevano tirato fuori i tappeti migliori, il set d’ottone per il the e comprato the alla menta e pistacchi, voleva dire che quell’uomo era veramente, ma veramente importante.

Mia madre mi diede una leggera spinta sulla schiena per farmi avvicinare di più al tavolino, poi lei si sedette e versò altro the nella tazza dell’ospite. Io, ovviamente, rimasi in piedi accanto agli adulti, perché a noi bambini non era permesso sederci con loro. L’uomo continuò a scrutarmi con invadenza, mentre mio padre rimaneva in silenzio, fissando l’ospite e aspettando qualche cosa che non avevo ben compreso. Il mio imbarazzo crebbe a dismisura, iniziai a guardarmi le punte dei piedi pur di non incrociare quegli occhi rugosi che mi guardavano famelici. Mi attorcigliavo le dita delle mani, pregando che quel supplizio terminasse presto.

«È troppo magra!», esclamò l’ospite a un certo punto, facendo sussultare mio padre e mia madre.

I miei genitori si guardarono preoccupati, quasi sull’orlo di una crisi di panico. Poi, mia madre intervenne.

«A quello possiamo porre rimedio noi, eccellenza! Ma guardi quanto è carina! Ha un visino delizioso e due occhi verdi che sono una vera rarità dalle nostre parti. Poi, è forte: non si è mai ammalata fino a oggi. Vero, Nabila?».

Feci un cenno d’assenso con la testa, non capendo che cosa volesse quell’uomo da me, né tanto meno perché mia madre fosse così agitata. Intanto, avevo visto le mani di mio padre serrarsi a pugno, in un gesto che mi fece tremare dalla paura.

«Può darsi, ma di certo non vi posso dare la somma richiesta! È piccola e magra e per il matrimonio, di certo, non potrà cambiare tanto».

Matrimonio? Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando, il matrimonio di chi? E poi, soprattutto, con chi? Una serie di domande iniziarono ad affollare la mia mente, domande a cui non riuscivo a trovare delle risposte sensate.

«Non dica così, esimio Khalid, non offenda la mia casa. Vedrà che, per quella data, le farò trovare una sposa alla sua altezza».

Ci fu un attimo di silenzio in cui capii che stavo per essere venduta a quel signore anziano, per diventare la sua nuova sposa. Un’usanza diffusa nel mio paese e, in particolare, nei villaggi che affastellavano le montagne della regione dell’entroterra. Con molta probabilità, poi, quel vecchio signore aveva già due o addirittura tre altre mogli, molto più grandi di me.

L’ospite mi fissò ancora per qualche secondo, accarezzandosi la lunga barba bianca, con le sue dita callose dure come il cuoio, cercando di valutare meglio l’affare che stava per concludere. Il suo viso, arso dal sole spietato dello Yemen, era pieno di solchi lasciati dallo scorrere inesorabile del tempo, che gli conferivano un’espressione arcigna, quasi malevola. Più lo guardavo e più il mio corpo tremava dalla paura.

«E sia! Ma non vi posso dare più di cinquecentomila Riyal. Questa è la mia ultima offerta, prendere o lasciare». Il suo tono era quello di chi non accettava repliche. Vidi mio padre calare il viso in segno di sconfitta, evidentemente, sperava in qualcosa di più, mentre mia madre si portò la mano alla bocca cercando di reprimere un singhiozzo di pianto. La mia poca esperienza mi disse che quella sera non sarei arrivata a coricarmi indenne.

«Ovviamente, la voglio ingrassata per la data del nostro matrimonio e questo sarà tutto a spese vostre. Non ho intenzione di sposarmi con un fuscello che non reggerebbe neanche la prima notte di nozze».

Mio padre mi lanciò uno sguardo carico di rabbia e frustrazione, come se fossi io la causa di tutti i mali della famiglia. Se avesse potuto, ero sicura, mi avrebbe massacrato di botte in quel preciso istante.

«Va benissimo, esimio Khalid, sarà fatto come vuole lei, noi siamo solo suoi umili servitori».

«Benissimo! Sapevo che eravate persone di parola. Alla fine della celebrazione del matrimonio, riceverete quanto vi spetta. Mi raccomando: non voglio aspettare troppo, cercate di organizzare il tutto il prima possibile».

Detto ciò, l’anziano signore, bevve un ultimo sorso di the, afferrò una manciata di pistacchi e uscì dalla nostra cosa sotto il mio sguardo attonito. L’ospite non fece in tempo a oltrepassare l’uscio della porta che una violenta botta mi colpì all’altezza dell’addome, scaraventandomi a terra senza fiato. Come una furia, mio padre si avventò su di me, iniziando a scaricare la sua rabbia.

«Brutta sgualdrina, hai gettato l’imbarazzo sulla nostra famiglia. Hai rischiato che Khalid non ti volesse più, fai schifo! Sei troppo magra! Io te l’ho sempre detto di mangiare di più!».

Io mi coprivo la testa e il volto con le braccia, mentre mio padre, seduto sopra di me, infieriva e inveiva contro di me. Sentivo la mia pelle arroventarsi sotto i suoi colpi, sempre più violenti. Per fortuna, dopo un po’ il mio corpo si abituò al dolore e io iniziai a sentirne meno. Piangevo in silenzio, perché avevo capito, ormai da tempo, che il rumore assordante delle lacrime avrebbe contribuito solo a peggiorare la reazione di mio padre. L’unica cosa che disse mia madre, mentre piangeva in un angolo della nostra casa, non per il mio pestaggio ma per la vergogna, era quella di non colpirmi il volto per non rischiare di sfigurarmi e di peggiorare le cose. Dopo un tempo che parve infinito, la furia di mio padre cessò, lasciandomi quasi esanime sul pavimento.

«Samara pensaci tu a questa sgualdrina, io non la voglio più vedere. Fai in modo che sia più grassa per il matrimonio e sia tutto in perfetto ordine come vuole Khalid. Intesi?».

Mia madre non disse nulla, smise di piangere e fece un senso d’assenso con la testa, infine, mi guardò incredula per quello che avevo fatto, lasciandomi quasi svenuta sul pavimento arido della casa.

*

La cerimonia di nozze fu molto sfarzosa. Io ero vestita con un abito tradizionale yemenita, tessuto su misura, in seta color porpora. Avevo anche dei gioielli, dono del mio futuro marito. Mia madre mi disse, mentre mi preparava al grande giorno: «Questo sarà il giorno più bello della tua vita». Volevo ribattere che sicuramente sarebbe stato un buon giorno per loro, non di certo per me, ma la spalla, ancora dolorante dopo lo sfogo di mio padre, mi suggerì di tenere la bocca chiusa.

Erano passati due mesi dalla prima e ultima volta che vidi Khalid. Di certo, non si poteva dire che lo conoscessi bene, ma anche questo era normale dalle mie parti e sicuramente non era la mia preoccupazione più grande, almeno per il momento. Due mesi tremendi, in cui mia madre mi forzò a mangiare di tutto, fino alla nausea, pur di farmi prendere peso. Per fortuna, alla fine, riuscii a prendere qualche chilo e a superare la prova di quello che sarebbe divenuto, da lì a poco, mio marito. Mio padre non mi guardò per tutta la cerimonia, né tanto meno mi rivolse la parola, mi evitò anche durante la festa offerta da Khalid per le nostre nozze. Solo alla fine, poco prima di ritornare al loro villaggio, si avvicinò a me e guardandomi con disprezzo disse: «Mi raccomando, questa notte non fare la stupida e vedi di non farti ripudiare. Fai la brava moglie e cerca di soddisfare tutti i desideri di tuo marito. Altrimenti, la prima pietra con cui ti lapideremo sarà la mia». Detto questo, se ne andò senza aggiungere altro. Lo guardai allontanarsi da me con la consapevolezza che non l’avrei più rivisto, ma questo stranamente mi portò solo un po’ di sollievo.

Mentre vedevo i miei parenti e amici abbandonare la sala del banchetto, strinsi la mia mano forte al petto, dove avevo legato, sotto il vestito, il mio Dudù. La mia bambola di pezza era l’unica cosa che riusciva a confortarmi in quei momenti. Più passavano i minuti e più mi sentivo sola e abbandonata in un mondo che non era il mio. Alla fine della giornata, quando il sole era ormai basso e in casa non era rimasto più nessuno, se non io e quello che era da poco divenuto mio marito, l’angoscia salì in maniera vertiginosa. Mi guardavo attorno cercando di capire che dovessi fare e, soprattutto, cosa intendeva mio padre con la strana frase che mi aveva detto prima di andare via. Non avevo minimamente idea di come soddisfare mio marito, giacché avevo solo otto anni e non sapevo neanche cucinare. Veramente non riuscivo a capire cosa dovesse fare una brava moglie. Di certo, non gli potevo chiedere di giocare con me!

Mentre mi ponevo queste domande, vidi Khalid avvicinarsi a me con un’espressione strana dipinta sul suo volto rugoso. Si sedette accanto a me e a quel punto potei sentire tutto il disagio che il suo sguardo mi provocava. Lo vedevo osservare insistentemente ogni centimetro del mio corpo, l’aveva fatto anche la prima volta che c’eravamo conosciuti a casa mia, ma questa volta era diverso, sicuramente peggio, perché eravamo solo lui e io. Mi sentii violare nell’anima, oltre che nel corpo. Il mio viso avvampò dall’imbarazzo: era come se fossi nuda davanti a un estraneo e non riuscivo a capire il perché; era una sensazione strana, mai provata prima. Quando successe a casa mia, ebbi la sensazione di essere in qualche modo protetta, come se ci fosse una barriera fra noi due, che lui non poteva oltrepassare, neanche con lo sguardo. Ora, invece, mi sentivo totalmente sguarnita e in sua balia. La mia mente mi urlava di stare attenta e di avere paura, il motivo, però, non riuscivo proprio a comprenderlo. Quando, poi, la sua mano si posò sulla mia spalla, un fremito di puro terrore mi fece letteralmente sobbalzare. Non avevo mai provato una paura simile, c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello che stava succedendo, qualcosa di sporco. Il mio corpo tremava convulsamente.

Poi, in un secondo, senza che me ne accorgessi, Khalid mi spinse a terra. Fui presa dal panico!

«No!», gridai d’impulso.

La sua risposta fu solo uno schiaffo, che mi lacerò le labbra e la pelle della guancia. Mi guardò negli occhi per qualche secondo, contrariato dalla mia risposta; il suo alito sapeva di acido e di sporco. Trascorsero attimi di panico, in cui mi portai la mano al petto per stringere convulsamente il mio Dudù.

«Tu ora mi appartieni. Ricordatelo!», sussurrò malevolo.

Quando, poi, ebbe capito di avermi sottomessa e che non avrei più opposto resistenza, infilò la sua mano callosa sotto la gonna del vestito e, con uno scatto, mi strappò via la parte della sottana che mi copriva il ventre. Sgranai gli occhi per l’angoscia, la mia mente andò in tilt, mentre violenti spasmi mi scuotevano il torace. Volevo gridare, volevo scappare, mi irrigidii d’istinto con il corpo, con la conseguenza che Khalid serrò la presa sulla mia spalla, fino a quasi lussarmela. Con l’altra mano, si calò i pantaloni della sua tunica tradizionale e poi me la mise sulla bocca per non farmi gridare. La sua enorme mano mi copriva la bocca e il naso, impedendomi quasi di respirare. Annaspavo alla ricerca d’ossigeno, mentre le mie narici furono inondate di un odore di polvere e tabacco, così forte da quasi farmi perdere i sensi. Per un momento, sperai anche che ciò accadesse per non vivere più coscientemente quel terrore incomprensibile che nasceva nel mio ventre e si propagava per tutto il corpo. Sfortunatamente, questo non accadde e rimasi lucida per tutto il tempo. Il mio cuore galoppava come un cavallo impazzito.

Khalid si mise sopra di me, mentre mi teneva a terra con un mano e con l’altra mi tappava la bocca per non farmi urlare. Mi sovrastava spavaldo e indifferente di quello che stavo provando, poi, appoggiò il suo ventre sul mio, a quel punto seppi che non avrei avuto più scampo. Una cosa troppo grossa e dura, di cui non sapevo nemmeno l’esistenza, cercò di violarmi il ventre. Istintivamente contrassi la pancia cercando di opporre resistenza: quello fu un grande errore, perché Khalid lo prese come una sfida e, con un sorriso di trionfo, impresse una forza devastante a quella parte del suo corpo, penetrando dentro di me con estrema violenza.

Mi lacerò!

Sentii il mio ventre cedere di colpo e strapparsi come un foglio di carta. Il dolore fu lancinante, così forte che non riuscii a emettere neanche un gemito. Mi inarcai per gli spasmi, mentre lui continuava a penetrarmi, violando sia il corpo che l’anima. Dopo un po’, non sentii più nulla, se non il fuoriuscire di un liquido denso e caldo dalla parte bassa del mio corpo. Non riuscii a vedere cosa fosse, ma più ne perdevo, più mi sentivo debole, come se quello fosse la mia anima che lasciava il mio corpo. Con la mano libera strinsi sempre di più Dudù che, fedele e coraggioso, era rimasto tutto il tempo legato al mio petto, cercando di difendermi dal male. Sfinita e rassegnata, voltai il viso da un lato, cercando di togliermi la sua mano dalla bocca e cercando di respirare un po’ di aria pulita. Ormai senza forze, non opposi più la minima resistenza, sentendo che il mio corpo si era afflosciato, sciolto come burro al sole. A quel punto, Khalid allentò la presa, permettendomi di portare anche l’altra mano al mio petto; ormai aveva capito che ero completamente sua.

Continuò a penetrarmi per un periodo che mi parve infinito, mentre sentivo sempre di più quel liquido viscoso uscirmi dal ventre. Avrei voluto dirgli di smettere per vedere cosa fosse, per chiedergli aiuto perché mi sentivo venir meno, ma lui era totalmente rapito in un’espressione grottesca di piacere, che non ne ebbi né il coraggio né la forza. Alla fine, in uno spasmo incontrollato, si arrestò inarcando la schiena ed emettendo uno strano rumore gutturale. Rimase così per qualche secondo, dopo di che si scostò da me, senza degnarmi di uno sguardo. Mentre si alzava, vidi che aveva il suo ventre sporco di sangue, ma non riuscii a capire di chi fosse. Poi, mi sferrò un calcio e imprecò.

«Maledetta puttana! Io l’avevo detto che eri troppo magra e che non avresti retto la prima notte di nozze. Guarda che casino hai combinato … Mi hai imbrattato tutto con il tuo lurido sangue!».

Con il mio sangue? Ma io non sentivo più dolore, com’era possibile che fosse il mio? Mi portai una mano in mezzo alle gambe, mentre con l’altra stringevo ancora forte Dudù al mio petto, poi me la portai davanti gli occhi e constatai che, effettivamente, era sporca di sangue caldo. Avrei voluto chiedere aiuto, magari avrei anche voluto piangere, ma ero troppo debole e stanca per fare tutto ciò, sentivo le mie forze scorrere via sempre più velocemente insieme al mio sangue. Avevo solo sonno, tanto sonno, quindi feci l’unica cosa che mi andava di fare…

Chiusi gli occhi e, ormai sfinita, mi addormentai per l’ultima volta, sicura di avere ancora con me il mio fedele amico di stoffa, legato saldamente al mio petto.